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Velo islamico

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Test culturale

1. La categoria “cultura” (o religione) è utilizzabile?
​Sì. Il velo è un tipo di copricapo o mantello di carattere religioso/culturale che le donne di determinati contesti sociali sono solite utilizzare per coprire la testa e, in alcuni casi, anche il viso. Oggi il termine "velo" è associato soprattutto all'uso del copricapo da parte delle donne di religione musulmana.
2. Descrizione della pratica culturale (o religiosa) e del gruppo.
Nei vari contesti dei paesi islamici, le donne adottano un'ampia gamma di indumenti che servono a coprire sia il corpo che il viso, facendo questi parte integrante delle loro tradizioni culturali e credenze religiose. Queste vesti rappresentano una parte fondamentale dell'identità delle donne musulmane, e hanno notevoli variazioni che dipendono dalla tradizione locale e dalle preferenze individuali.
Uno degli indumenti più diffusi è rappresentato dall'hijab, un foulard che copre i capelli e il collo delle donne, lasciando il volto scoperto. Questo indumento è ampiamente adottato in tutto il mondo islamico e spesso risponde a una forma minima di copertura richiesta dalla shari'a per le donne.
L'abaya, invece, è un abito lungo che avvolge il corpo dalla testa ai piedi, e viene spesso abbinato al niqab, che copre il volto, consentendo solamente agli occhi di rimanere visibili; questo accostamento di indumenti è tipico di molte comunità islamiche del Medio Oriente e dell’Africa Settentrionale.
In Iran, il chador è una copertura comune che può essere sia un velo che copre la testa, sia un mantello che avvolge completamente il corpo, solitamente in tinta nera.
In Afghanistan, invece, il burqa è noto per il suo caratteristico colore azzurro e include una sorta di schermatura per gli occhi, nascondendo completamente il corpo delle donne.
In generale, queste diverse vesti vengono indossate dalle donne musulmane come espressione di devozione religiosa, rispetto per la cultura e modestia. Tuttavia, è importante sottolineare che le preferenze e le pratiche possono variare considerevolmente da un luogo all'altro e da una persona all'altra, e non esiste un unico vestiario dell'islam.
3. Inserire la singola pratica nel più ampio sistema culturale (o religioso).
 
La pratica di indossare il velo va collegata ad altri profili culturali quali quelli connessi agli standard di abbigliamento e al sistema religioso nel suo complesso.
C'è un diffuso pregiudizio che si basa sull'idea che l'uso del velo sia intrinseco all'islam. Tuttavia, l'utilizzo di un velo che copre parte del corpo delle donne è una tradizione che esiste da prima dell'islam e, ovviamente, non è esclusiva dell'islam o dei paesi che oggi seguono questa religione. Nell'antica Roma, per esempio, questo tipo di indumento veniva indossato da donne di ceto sociale elevato, oppure in alcuni contesti del nord Africa e del Medio Oriente era utilizzato come protezione contro il vento e la sabbia; solo successivamente acquisì significati religiosi e fu adottato dalle donne appartenenti alla prima comunità fondata dal profeta Maometto. Oggi, com’è noto, il suo utilizzo è radicato nelle credenze e nelle pratiche religiose, così come nelle tradizioni culturali, di molte comunità islamiche in tutto il mondo.
Il velo può variare in stile e grado di copertura, e queste differenze riflettono sia le preferenze individuali che le diverse interpretazioni della modestia e della devozione religiosa all'interno delle varie correnti dell'islam. L'uso del velo, difatti, è influenzato dal contesto culturale e dalle norme sociali in una determinata regione o comunità: in alcuni luoghi l'uso del velo può essere obbligatorio o altamente raccomandato dalle autorità religiose, mentre in altri può essere più una scelta personale.
È importante notare, inoltre, che nel Corano non vi è un obbligo esplicito per le donne di coprirsi con il velo, ma si raccomanda piuttosto, sia alle donne che agli uomini, di adottare un abbigliamento decoroso, preservando la modestia e nascondendo le parti del corpo considerate sacre. Per questo motivo risulta importante, per poter effettuare una corretta interpretazione, considerare che le motivazioni che conducono a indossare il velo possono essere molto diverse e possono includere fattori religiosi, culturali, personali e sociali/identitari (es. in un contesto di immigrazione si può scegliere di indossare il velo come collegamento alle proprie radici).
 
4. La pratica è essenziale (alla sopravvivenza del gruppo), obbligatoria o facoltativa?
La pratica di indossare il velo non è un obbligo religioso dell’islam, non fa parte dei cinque precetti né è imposto dal Corano. In quegli ordinamenti come Iran e Afghanistan che hanno imposto l’uso del velo la scelta non va collegata alla religione o cultura, bensì a regimi politici.
La pratica ha un forte carattere identitario, ancora più in contesti migratori. Per questo motivo assume un ruolo chiave nell’identificazione personale e sociale degli individui e delle famiglie, e si presenta come una parte imprescindibile del processo di significazione identitaria.
5. La pratica è condivisa dal gruppo o è contestata?
La pratica è largamente diffusa dagli appartenenti alla religione musulmana e accettata, anche in contesti migratori, dalle nuove generazioni.
6. Come si comporterebbe la persona media appartenente a quella cultura (o religione)?
Nei contesti migratori l’utilizzo del velo è sempre più lasciato alla discrezionalità dell’individuo.
7. Il soggetto è sincero?
Poiché l’utilizzo di questi indumenti non è vietato dalla legge italiana, la valutazione della sincerità del soggetto rispetto alla pratica potrebbe rilevare soltanto laddove dovessero emergere situazioni sintomatiche di rapporti di oppressione e di dominio tra uomini e donne, magari interni allo stesso gruppo familiare (padre/madre/fratelli-figlia oppure moglie-marito) o in generale comunitario. In questi contesti la sincerità da valutare sarebbe relativa a più soggetti: la donna che indossa l’indumento; il soggetto che si sospetta le imponga di indossarlo.
In questo caso però sarebbe opportuno verificare:
- la sussistenza in capo alla donna della volontà/scelta di utilizzare quell’indumento per determinate ragioni religiose o identitarie;
- il livello della eventuale imposizione interno al gruppo familiare e/o comunitario, nello specifico se si tratta di un tentativo di trasmettere determinati valori culturali che eventualmente genera scontri generazionali fisiologici (es. imposizione a giovani immigrati di seconda generazione che rispetto ai propri genitori percepiscono in maniera differenti certi valori e desiderano omologarsi alla società ospitante) o di veri e propri rapporti di dominio, disfunzionali e pertanto generanti oppressione nei confronti della donna anche su altri ambiti di vita, ulteriori rispetto a quelli in materia di scelta dell’abbigliamento;
- gli intenti dei soggetti che impongono il velo, se educativi rispetto a determinati valori, eventualmente da prendere in considerazione nella valutazione del caso concreto oppure meramente oppressivi e volti a instaurare un clima di prevaricazione.
8. La ricerca dell’equivalente culturale. La traduzione della pratica della minoranza in una corrispondente pratica della maggioranza (italiana). ​
Vi sono vari contesti occidentali nei quali il velo viene utilizzato: le monache e le suore del cristianesimo sono solite coprire il capo con veli di varie fogge e colori che indicano anche l’appartenenza all’ordine religioso; in alcuni contesti del sud Europa, Italia inclusa, persiste la tradizione di utilizzare il velo nero durante le cerimonie funebri o per recarsi in chiesa o come elemento dell’abbigliamento in uso presso persone anziane, in particolare in aree rurali.
Importante segnalare, inoltre, che secondo l’insegnamento cristiano di San Paolo le donne dovrebbero indossare il velo come segno di gloria di Dio, ovvero come segno esteriore di riconoscimento e sottomissione all'autorità di Dio e degli sposi (o dei genitori, a seconda dei casi) e di rispetto per la presenza dei Santi Angeli nella Divina Liturgia. Nell'uso del velo secondo San Paolo l’utilizzo del velo si presenta chiaramente come una prescrizione e non come una raccomandazione come nel caso del Corano.
9. La pratica arreca un danno? ​
La pratica arreca un danno alle donne se non è dalle stesse condivisa in quanto limita la loro libertà di personale e di espressione. Quando indossare questi indumenti è, invece, una scelta potrebbe determinare un danno proibirne l’utilizzo, soprattutto in relazione ai significati religiosi e culturali che gli stessi assumono nel proprio sistema di valori.
In realtà il divieto di indossare questi specifici indumenti è suscettibile di arrecare un danno alle donne in entrambi i casi riportati: nel caso in cui la donna sia vittima di una imposizione, il divieto potrebbe condurre il soggetto impositore (famiglia, comunità etc.) a impedire direttamente alla donna di partecipare alla vita pubblica e di relazione, ponendola in uno stato di segregazione, emarginazione e isolamento; nel caso in cui si dovesse trattare di una scelta condurrebbe la donna stessa a una scelta obbligata tra voler mantenere ed esplicare nella vita quotidiana valori e spiritualità e allo stesso tempo, esprimere sé stessa nella società in cui vive. Le donne potrebbero infatti sentirsi in imbarazzo a mostrarsi senza tali indumenti, così come sempre a titolo di esempio potrebbe essere motivo di disagio doversi necessariamente indossare un bikini piuttosto che un burkini per stare al mare.
Non sono invece riscontrabili danni alla sicurezza pubblica. Come stabilito dalla giurisprudenza in materia, anche la copertura totale del volto non impedisce alla donna di identificarsi se richiesto.
​10. Che impatto ha la pratica della minoranza sulla cultura, valori costituzionali, diritti della maggioranza (italiana)?
La percezione della cultura di maggioranza varia a seconda degli indumenti specifici a cui si fa riferimento. In generale però si deve precisare che, anche in ragione dell’evoluzione del dibattito pubblico e mediatico in materia, vi è una diffidenza di fondo comune.
L’hijab, lo chador o anche il semplice foulards potrebbero essere intesi come una limitazione rispetto alla espressività di femminilità della donna, perché lasciano completamente coperti i capelli che sono invece nella cultura occidentale molto connotati in questo senso, altre volte essere interpretati come elemento di fanatismo religioso. Si potrebbe parlare a questo proposito di una questione puramente estetica, legata a una differente concezione di vanità, eleganza. Per quanto riguarda invece il burqa e il niqab vi è una maggiore diffidenza perché questi indumenti oltre che essere associati a forme di oppressione sul copro delle donne generano talvolta timore, per il fatto che occludono il viso dei soggetti. Ciò in parte si deve anche al clima di sospetto generatosi nei confronti della religione islamica all’indomani dei vari attentati terroristici e della diffusione del fondamentalismo islamico. 
11. La pratica perpetua il patriarcato?
La percezione della cultura di maggioranza varia a seconda degli indumenti specifici a cui si fa riferimento. In generale però si deve precisare che, anche in ragione dell’evoluzione del dibattito pubblico e mediatico in materia, vi è una diffidenza di fondo comune.
L’hijab, lo chador o anche il semplice foulards potrebbero essere intesi come una limitazione rispetto alla espressività di femminilità della donna, perché lasciano completamente coperti i capelli che sono invece nella cultura occidentale molto connotati in questo senso, altre volte essere interpretati come elemento di fanatismo religioso. Si potrebbe parlare a questo proposito di una questione puramente estetica, legata a una differente concezione di vanità, eleganza. Per quanto riguarda invece il burqa e il niqab vi è una maggiore diffidenza perché questi indumenti oltre che essere associati a forme di oppressione sul copro delle donne generano talvolta timore, per il fatto che occludono il viso dei soggetti. Ciò in parte si deve anche al clima di sospetto generatosi nei confronti della religione islamica all’indomani dei vari attentati terroristici e della diffusione del fondamentalismo islamico.
 
Soprattutto lo chador, il niqab e il burqa impattano per alcuni sui valori dell’eguaglianza di genere, della dignità della donna e della sua libertà di autodeterminazione anche rispetto al modo di vestirsi, oltre che come già segnalato coinvolgere anche valori come quello della sicurezza collettiva.
Quando si parte dalla convinzione che la donna è costretta ad indossarli, soprattutto burqa e niqab rappresentano una condizione di discriminazione e oppressione della donna nella cultura musulmana, o uno strumento per emarginare le stesse rispetto alla società. Quando invece si prende in considerazione che indossare tali indumenti sia una scelta della donna allora si interpreta quest’ultima come una mancanza di volontà rispetto all’emancipazione, alla libertà e all’integrazione.
 La pratica impatterebbe secondo alcuni sui diritti fondamentali delle donne (libertà personale, diritti individuali inviolabili, eguaglianza).
Alcuni paesi europei hanno vietato in questa ottica e in quella di tutela del valore della sicurezza la copertura del parziale o totale del volto (niqab e burqa) negli spazi pubblici (Francia, Belgio, Bulgaria, ad eccezione per i luoghi di culto; Austria e Danimarca); altri soltanto in determinati luoghi pubblici (come ad esempio, scuole, uffici governativi, ospedali, mezzi pubblici, aule giudiziarie etc.; è il caso di Olanda, Norvegia, Lussemburgo); altri ancora si sono mossi attraverso l’applicazione di divieti locali (alcuni cantoni della Svizzera, Spagna e Italia; si è trattato spesso di decreti e ordinanze locali che poi talvolta sono stati ritenuti illegittimi); altri Stati non hanno previsto alcuna disposizione in materia (è il caso dell’Inghilterra e della Germania, anche se qui la legge statale impone di mostrare il volto se si è impiegati statali e se si è alla guida).
 
In Italia, nonostante siano state avanzate varie proposte in materia, non esiste una legge che proibisce l’uso di tali indumenti. L’art. 5 della L. n. 152/1975 vieta l’uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo e rende assoluto questo divieto in occasione di manifestazioni che si svolgono in luogo pubblico o aperto al pubblico, tranne quelle di carattere sportivo. Talvolta questa disposizione è stata oggetto di strumentalizzazioni, soprattutto da parte delle autorità locali che sono state tuttavia dichiarate illegittime quando facevano riferimento all’uso di tali indumenti di valenza religiosa (Consiglio di Stato, sent. n. 3076/2008). Secondo questa interpretazione l’uso sarebbe legittimato dalla sussistenza del giustificato motivo religioso e dall’altro lato, la tutela della sicurezza realizzata dal divieto di utilizzo in occasione di manifestazioni e dall’obbligo per le donne integralmente velate di sottoporsi all’identificazione e alla rimozione del velo, ove necessario.
Nonostante ciò, alcuni provvedimenti regionali (Veneto e Lombardia), sanciscono il divieto di ingresso nelle strutture pubbliche regionali con il volto coperto.
12. Che buone ragioni presenta la minoranza per continuare la pratica? Il criterio della scelta di vita ugualmente valida.
Trattandosi di un elemento a forte carattere identitario, l’utilizzo del velo è visto come uno strumento necessario per poter affermare il proprio contatto con il paese e la cultura di origine. Le ragioni che spingono al suo utilizzo sono, perciò, soprattutto legate a un’affermazione identitaria in contesti migratori. A ciò si aggiunga la componente religiosa per le musulmane devote.

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