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Ramadan 


Test culturale

1. La categoria “cultura” (o religione) è utilizzabile?
​Sì. Il Ramadan è un processo rituale-festivo della durata di un mese caratterizzato da un forte senso religioso. Per un musulmano il Ramadan è una pratica necessaria per manifestare pubblicamente la sua appartenenza alla Umma (comunità di credenti musulmana), motivo per il quale questa celebrazione ha anche un forte carattere ludico-festivo per la comunità. 
2. Descrizione della pratica culturale (o religiosa) e del gruppo.
 
2. Descrizione della pratica culturale (o religiosa) e del gruppo. 
Il Ramadan è il nono mese dell'anno lunare, istituito come periodo di digiuno obbligatorio per commemorare la discesa della rivelazione, cioè il momento in cui l'angelo Gabriele rivelò il Corano a Maometto. Ogni musulmano adulto, uomo o donna, è tenuto a osservare il digiuno del Ramadan; il Corano e la Sunna ne sanciscono l'obbligatorietà e ne stabiliscono le prescrizioni, così come le eccezioni e le modalità di recupero dei giorni mancanti, e queste regole sono note a ogni musulmano.
Sono esenti dal digiuno i malati, gli anziani, i bambini e le donne incinte o che allattano e durante il ciclo mestruale, nonché coloro che sono in viaggio, persone impegnate in lavori pesanti, persone malate le cui condizioni di salute potrebbero essere peggiorate dal digiuno, persone con gravi problemi di fame o sete per le quali il digiuno può avere un impatto negativo sulla salute. Chi salta un giorno di digiuno per uno di questi motivi deve recuperarlo, sempre che sia possibile e che le condizioni lo permettano, prima del Ramadan successivo. In caso contrario, i giorni verranno accumulati.
L'interruzione indebita del digiuno richiede compensazioni rigorose, che variano a seconda delle situazioni e che possono arrivare anche al digiuno di due mesi per ogni giorno saltato, o al pagamento del cibo per un certo numero di poveri e per un periodo di tempo stabilito dalla Sunna. Esistono, difatti, due tipi di “digiuni mancati “, la fidya e la kaffara: la fidya è il digiuno mancato per necessità, ossia per coloro che sono impossibilitati a recuperare i giorni di digiuno; può essere coperto attraverso un compenso in denaro per i bisognosi, che può essere versato solo quando la persona non è in grado di recuperare il digiuno. Mentre la kaffara è il digiuno senza un motivo valido e riconosciuto, alla quale corrisponde un periodo molto lungo di digiuno, oppure un compenso molto elevato, spesso difficile da sostenere per la maggior parte dei credenti.
Durante il Ramadan non si possono ingerire sostanze solide o liquide nelle ore diurne (dal sorgere del sole al tramonto) e bisogna evitare ogni forma di copulazione. Oltre al rigoroso digiuno diurno, durante questo mese si seguono altre pratiche religiose come la lettura quotidiana del Corano (svolta in modo che alla fine del mese sia stato letto tutto il Libro Sacro), o la scrupolosa osservanza dell'elemosina (poiché la fame vuole rendere i musulmani consapevoli dell'esistenza dei poveri). Durante questo periodo nulla può entrare nel corpo di una persona adulta durante le ore diurne, nemmeno l'acqua, e non si possono avere rapporti sessuali o fumare. Alcune credenze più rigide includono anche il divieto di profumarsi, di fare la doccia e addirittura di ingerire saliva. Anche i farmaci, siano essi orali, iniettabili o topici, sono vietati, anche se ci possono essere interpretazioni diverse a seconda della corrente islamica di appartenenza.
Il primo boccone o sorso che un musulmano assume alla fine della giornata, la cosiddetta rottura del digiuno o iftar, è solitamente a base di datteri e acqua o latte. Questo frutto del Paradiso fornisce fibre, zuccheri, grassi, proteine e vitamine le cui proprietà sono facilmente assorbite dall'organismo, riducendo così l'appetito in un periodo di tempo più breve.
Il mese di Ramadan inizia con la comparsa della luna nuova e termina con la successiva luna; perciò, può durare 29 o 30 giorni. Con questa celebrazione si definisce una netta opposizione tra giorno e notte, e la rottura del digiuno segna il cambio di ritmo, che in alcuni paesi avviene mangiando un numero dispari di datteri e un bicchiere di latte. Segue la preghiera e poi il primo pasto, spesso consumato in famiglia, a casa di amici o in moschea; quest'ultimo caso è più frequente tra i single e tra coloro la cui famiglia è nel Paese d'origine. 
I musulmani recitano cinque preghiere al giorno e ogni preghiera non richiede più di qualche minuto. La preghiera nell'Islam è il collegamento diretto tra Dio e il credente, non ci sono intermediari tra loro. Le preghiere vengono eseguite all'alba, a mezzogiorno, a metà pomeriggio, al tramonto e di notte; il musulmano può eseguire la preghiera in quasi tutti i luoghi, come campi, fabbriche, uffici, università, ecc. Ogni musulmano è tenuto ad assentarsi dalla propria attività, dalla scuola o dal lavoro per partecipare alla preghiera del venerdì, la più importante della settimana, che in genere si svolge dalle 13.30 alle 16.30. La preghiera del venerdì è un obbligo religioso, e ogni buon musulmano è tenuto a trovare un accordo con il proprio datore di lavoro per trovare il tempo di parteciparvi, per esempio recuperando le ore perse facendo degli straordinari durante la settimana o rimanendo fino a tardi il venerdì stesso. 
Per la fine del Ramadan viene celebrata una festa: Eid al-Fit. I musulmani celebrano questa ricorrenza indossando abiti nuovi, e l'intera giornata viene festeggiata dai credenti, che visitano le case di parenti e amici e mangiano in compagnia i piatti speciali cucinati per l'occasione. Tradizionalmente i bambini ricevono regali, omaggi e dolci dai loro cari, come simbolo di amore e festività.
Dopo la festa la vita torna alla normalità per il musulmano, che recupera gradualmente le pratiche abbandonate durante il Ramadan, fino a quando l'annuncio del successivo mese di digiuno obbligatorio riavvia il ciclo. 
 
3. Inserire la singola pratica nel più ampio sistema culturale (o religioso).
 
Essere musulmani implica l’accettazione di un determinato sistema di vita nel quale il Corano e la Sunna sono i punti di riferimento principali, e che contengono un insieme di norme che regolano e organizzano la vita individuale e sociale del musulmano, costituendo un progetto di ordine sociale. I cinque pilastri dell'Islam sono l'essenza stessa della vita di un musulmano: la testimonianza di fede, la preghiera, l'elargizione della Zakat (aiuto ai poveri), il digiuno durante il mese di Ramadan e il pellegrinaggio alla Mecca, una volta nella vita, per coloro che hanno i mezzi per farlo. 
L'Islam, come ogni religione, si adatta e si adegua a contesti e situazioni diverse, motivo per il quale è possibile trovare diverse espressioni della religiosità musulmana, sia nella sua dimensione individuale che collettiva o sociale. Ma c’è un elemento ricorrente per tutti i musulmani che si svolge in tutti i contesti, seppur con delle differenze: il Ramadan. Esso segna la vita sociale dei credenti ed è considerato come la massima espressione dell'identità musulmana, in quanto è il momento nel quale diverse centinaia di milioni di persone in tutto il mondo digiunano dall'alba al tramonto, nel rispetto del quarto pilastro dell'Islam. 
 
4. La pratica è essenziale (alla sopravvivenza del gruppo), obbligatoria o facoltativa?
La pratica è obbligatoria a livello religioso costituendo uno dei cinque pilastri dell’Islam. In un contesto di emigrazione il Ramadan diventa spesso uno strumento identitario necessario, un punto di riferimento fondamentale per i musulmani in quanto sintesi delle credenze e delle pratiche, del modo di comprendere, spiegare e affrontare la realtà, e che diventa necessario esprimere in contesti “altri “ per sentire la propria appartenenza. Esso ha, difatti, un'importante efficacia simbolica, ed è capace di intensificare le relazioni sociali e di “costruire “ una comunità e il suo senso di appartenenza.
 
5. La pratica è condivisa dal gruppo o è contestata?
 Poiché nei paesi di emigrazione non esiste un rigido controllo sociale che obblighi i musulmani a osservare il Ramadan, la sua osservanza diventa una scelta personale alla quale, tuttavia, la maggior parte si attiene; sono pochi quelli che si astengono apertamente dal digiuno, cosa che li porrebbe automaticamente fuori dalla comunità. Non esistono, difatti, dibattiti strutturati interni alle comunità islamiche diretti all’abbandono della pratica, essendo la stessa uno dei cinque pilastri fondamentali della religione. 
Il Ramadan è un segno importante della specificità del gruppo; è un mezzo fondamentale per la produzione e la riproduzione delle identità. Per l'immigrato, la pratica del Ramadan è l'espressione di una tradizione e implica la ri-produzione di modelli culturali, il rafforzamento dei legami di appartenenza a un particolare gruppo sociale.
Per i musulmani la pratica del Ramadan riflette la loro immagine di sé a tre livelli: come individui, come membri del gruppo che costituisce il loro ambiente di interazione e, infine, come parte della Umma, la comunità dei credenti. 
Da un punto di vista individuale, il Ramadan ricorda ai musulmani le regole di comportamento che devono seguire in ogni momento in quanto credenti. Queste regole stabilite regolano tutti gli aspetti della vita e permettono loro di identificarsi in termini religiosi con la comunità nella quale vivono e di stabilire la propria identità sociale. Inoltre, attraverso il Ramadan i musulmani rinnovano ogni anno la loro appartenenza a una comunità, in modo che coloro che sono lontani dalle moschee durante l'anno vi ritornino in questo mese, che è un momento di riunione e di stimolo alla socievolezza e alla solidarietà del gruppo. 
 
6. Come si comporterebbe la persona media appartenente a quella cultura (o religione)?
 
In linea generale si può affermare che vi è una larga partecipazione, anche perché il Ramadan costituisce un importante momento di convivialità e di incontro con persone che si frequentano solo in occasioni festive. 
È da segnalare che il digiuno effettuato durante la giornata lavorativa in un paese laico può causare problemi, in quanto ha inevitabilmente un effetto sulla produttività e sui livelli di concentrazione. Sebbene alcuni musulmani cerchino di assentarsi dal lavoro durante il Ramadan, è probabile che molti continuino a lavorare durante il mese e che si trovino frequentemente ad avere problemi nei contesti di lavoro a causa di una “produttività rallentata “, dovuta alla mancanza di energie a causa del digiuno e a causa delle pause dal lavoro per svolgere le preghiere. 
 
7. Il soggetto è sincero?
È altamente probabile che le eventuali richieste avanzate da un soggetto di religione islamica in ambito lavorativo o in altri settori, quali ad esempio quello scolastico-educativo, siano sintomatiche di una sincera adesione alla pratica:
- si tratta di una pratica molto diffusa tra i fedeli di religione islamica, non in disuso o minoritaria, che spesso nei contesti migratori accentua il suo valore spirituale e conviviale, di appartenenza comunitaria e di identità;
- è circondata da una forte sacralità, la non condivisione di questo pilastro della religione islamiche potrebbe portare più facilmente al non esercizio del digiuno piuttosto che all’uso dello stesso a livello strumentale, dal momento che si compirebbe una doppia violazione di natura divina; 
- la condizione in cui verte una buona parte dei lavoratori musulmani in Italia, e degli immigrati in genere, è precaria, soprattutto all’inizio della permanenza; pertanto, sia i soggetti che si trovino in questa condizione di precarietà, sia quelli che abbiano raggiunto una certa stabilità, non metterebbero in discussione i risultati raggiunti se non per un motivo valido e profondo come l’adempimento di una prescrizione religiosa fondamentale. 
Vi sono alcuni indici che possono essere utili, unitamente a queste considerazioni di carattere generale, a individuare la sincerità del soggetto nell’adesione della pratica ad esempio:
  • la provenienza del soggetto e, in particolare, il suo stato di origine; sussistono infatti numerosi paesi di religione islamica in cui ad esempio la violazione del digiuno è considerata reato o in ogni caso illecito per la legge divina e dello Stato, fatto che potrebbe influenzare la percezione che il soggetto ha della eventuale violazione di quello che ha sempre considerato reato; 
  • audizione dei soggetti e delle motivazioni per i quali aderiscono alla pratica, soprattutto nei casi in cui questa coinvolga minorenni i cui genitori (entrambi o uno solo di essi), non veda di buon occhio l’esecuzione della pratica. 
8. La ricerca dell’equivalente culturale. La traduzione della pratica della minoranza in una corrispondente pratica della maggioranza (italiana). ​
Tra gli equivalenti culturali italiani possono essere citati il digiuno quaresimale e il digiuno salutista/purificatorio. 
Il riferimento alle forme di digiuno quaresimale, tipico del culto cattolico, come forma di equivalente culturale, potrebbe non essere esemplificativo abbastanza in quanto non è ritenuto pregnante e rappresentativo in maniera uguale da tutti i credenti. Dal punto di vista oggettivo, il digiuno quaresimale è simile al Ramadan, anche se con intervalli temporali differenti, tuttavia, non è una pratica altamente diffusa tra la popolazione, neppure tra quella più “praticante “, ed è da alcuni contestata, ritenuta obsoleta, priva di utilità e valore spirituale. Il digiuno quaresimale, inoltre, ha una finalità più penitenziale e non presenta le caratteristiche di convivialità che ha il Ramadan, che diviene un’occasione di condivisione prolungata del digiuno, di preghiera, ma anche di festa. 
Più pregnante potrebbe essere il riferimento a quelle forme di digiuno che vengono attuate da alcuni individui nella convinzione che generino funzione di purificazione e benessere corporeo, nonché garanzia di salute nel tempo. Spesso queste forme di astensione prolungata dal cibo, seppure condizionate a determinate modalità, sono avvallate da professionisti del benessere, nutrizionisti o sanitari che ne individuano i benefici da un punto di vista fisiologico. Nonostante tali digiuni non possano vantare un fondamento religioso come nel caso islamico, chi aderisce ad esse ne riconosce quasi sempre una valenza purificatrice corporea e spirituale, le associa ad una condizione di benessere fisico e mentale, a una condizione di equilibrio dell’essere, a forme di indipendenza dello spirito rispetto alla materialità. Alcuni aspetti religiosi, peraltro, sono permeati nella visione del digiuno tramite nutrizionisti di altre culture (es. giapponesi, indiani, cinesi) che operano in Italia e che, nei loro corsi e suggerimenti, trasmettono il background religioso/filosofico ad esempio dello yoga indiano, del Qi cinese etc. Tra tali profili religiosi/spirituali, si pensi al fatto che il semidigiuno si ritiene produrre purificazione del sangue e, come tale, invitare all’emergere di pensieri nuovi. Inoltre, il semidigiuno, favorendo la defecazione, aiuterebbe a liberarsi del proprio passato e creare le condizioni per cambiare il proprio destino (sul significato mistico dell’atto del mangiare e del digiunare si veda Omraam Mikhael Aivanhov, Lo yoga della nutrizione, Prosveta edizioni 2014). 
 
9. La pratica arreca un danno? ​
La pratica potrebbe arrecare un danno fisico (affaticamento, stanchezza cronica, debolezza, mancamenti, mancanza di concentrazione) in quanto prevede la deprivazione di acqua e cibo per periodi prolungati della giornata e soprattutto per la durata complessiva di 30 giorni circa. Tuttavia, è la legge islamica stessa a prevedere l’astensione dalla prescrizione religiosa in presenza di patologie, per gli anziani, per le donne (durante la gravidanza o durante il ciclo), per i viaggiatori. In generale il precetto religioso è organizzato secondo uno schema che permette di non rispettare il digiuno per giustificate ragioni e poter poi porre rimedio. Non si tratta di un digiuno a sè stante, ma di un’astensione effettuata con una forte volontà e motivazione da parte dei fedeli e questo modifica fortemente la percezione del danno fisico, la cui sopportazione è il mezzo per i fedeli di raggiungere un bene maggiore, la salvezza, la cura della propria spiritualità e identità, in comunità. Il “danno fisico “ consistente nella normale debilitazione che il digiuno può condurre è parte integrante della pratica.
Il danno può però accrescersi e mutare in forme più gravi della debilitazione, ad esempio, quando il soggetto si trova a vivere il momento religioso lontano dal proprio paese di origine, in un contesto che non adatta la vita sociale alla pratica, in contesti lavorativi che concentrano le attività proprio nel momento del digiuno, cioè durante la giornata, in settori che mettono a dura prova la resistenza fisica anche in condizioni di idratazione e nutrizione normali, come quello agricolo e quello edilizio, soprattutto nei mesi estivi. In questo caso, la debilitazione può sfociare in incidenti sul lavoro più gravi, in colpi di calore o in stati di disidratazione. La conciliazione delle esigenze del datore di lavoro con quelle della libertà religiosa dei lavoratori musulmani è l’unica strada per minimizzare i pericoli. 
 
​10. Che impatto ha la pratica della minoranza sulla cultura, valori costituzionali, diritti della maggioranza (italiana)?
La pratica del Ramadan risulta lontana dalla cultura maggioritaria: in parte per il sacrificio che comporta, e che se visto dall’esterno pare essere una privazione troppo accentuata e invalidante soprattutto rispetto alle esigenze che la società contemporanea richiede, quali quella della produttività lavorativa, dell’efficienza, della cura del benessere fisico; in parte perché è difficile da comprendere a livello spirituale, in quanto nella società occidentali secolarizzate, le pratiche religiose esteriori collegate a precetti religiosi vanno diminuendo o sono viste come modalità retrograde e obsolete che limitano la libertà degli individui e ne danneggiano il benessere fisico e psichico.
 
Per la cultura maggioritaria la pratica potrebbe avere un impatto sulla libertà individuale, perché vista come una imposizione religiosa, che insieme ad altre prescrizioni simili, limita la capacità di scelta degli individui in relazione allo stile di vita comunemente inteso: dove non vi sono particolari limitazioni imposte dall’esterno, quelle di natura religiosa non sono più sentite. Potrebbe inoltre impattare rispetto al valore della salute di adulti, ad esempio lavoratori, ma anche di minori rispetto, ad esempio, a quei casi in cui giovani musulmani scelgano di esercitare forme integrali o parziali di digiuno per seguire il credo dei propri genitori. In ambito lavorativo e scolastico, la pratica sarebbe ritenuta lesiva del valore dell’efficienza e della produttività perché potrebbe portare o all’impossibilità di esercitare alcune mansioni/compiti o a prestazioni più carenti dal punto di vista della forza fisica e della concentrazione mentale.
Dall’altro lato, però la pratica si inserisce a pieno nell’esercizio della libertà religiosa e del pluralismo confessionale che sono valori condivisi dalla cultura maggioritaria. 
 
Nella cultura di maggioranza l’esercizio della pratica potrebbe incidere in ambito lavorativo sul diritto alla salute del lavoratore, che in assenza di un adeguamento della prestazione lavorativa alla pratica potrebbe andare incontro a maggiori difficoltà, soprattutto in determinati settori quali quello agricolo o edile, dando luogo a malesseri più o meno gravi o determinando indirettamente infortuni più gravi. In ambito scolastico, l’esercizio della pratica da parte degli adolescenti, nella visione della maggioranza, potrebbe interferire sempre con il diritto alla salute e in parte anche con quello dell’istruzione.
Nel settore giuslavoristico il diritto alla libertà religiosa (art. 19 Cost.) dei dipendenti e il dovere dello stato di realizzare azioni positive per garantire il pluralismo confessionale (Corte Cost. 203/1989) l’eguaglianza sostanziale nell’esercizio di diritti che portano allo sviluppo della personalità del singolo e nelle formazioni sociali (art. 3 comma II Cost.; art. 2 Cost) si scontra certo con la libertà di iniziativa economica dei datori di lavoro (art. 41 Cost.) i quali spesso non hanno mezzi a sufficienza per realizzare forme di integrazione aziendali o spesso non sono sensibili al problema.
La legge fornisce una soluzione soltanto parziale e in via di principio a questo contrasto, attraverso il recepimento non solo dei principi costituzionali in tema di discriminazione religiosa ma anche delle disposizioni comunitarie (direttiva 78/2000, recepita dal d. lgs. 216/2003;), affermando il divieto di discriminazioni sul posto di lavoro per ragioni religiose, in tutte le fasi del rapporto lavorativo (accesso, accesso alla formazione, occupazione e condizioni lavorative, retribuzione e licenziamento). Un contributo concreto alla soluzione di queste problematiche è stato dato da molte realtà imprenditoriali, che interfacciandosi con un grande numero di lavoratori di religione islamica, hanno elaborato accordi con i principali sindacati per agevolare i momenti di preghiera durante l’orario di lavoro, il godimento di periodi feriali prolungati per le visite ai paesi di origine o altre esigenze legate al culto. La difficoltà nel coordinare i diritti e i valori in gioco non è solo data da una difficoltà di comprensione interculturale della necessità della pratica, ma anche dalla mancanza di mezzi economici che spesso le realtà imprenditoriali italiane, per lo più rappresentate da piccole medie imprese, riscontrano nell’applicare accomodamenti ragionevoli in materia di libertà religiosa dei dipendenti. 
11. La pratica perpetua il patriarcato?
No. 
12. Che buone ragioni presenta la minoranza per continuare la pratica? Il criterio della scelta di vita ugualmente valida.
 La minoranza presenta innumerevoli buone ragioni per continuare l’esercizio della pratica e farlo anche in luoghi differenti da quelli privati come il proprio domicilio o religiosi quali la moschea. Innanzitutto, si tratta di uno dei cinque pilastri della religione islamica, ciò significa che un fedele praticante non può esimersene. 
Il Ramadan ha un valore spirituale molto alto, in quanto rappresenta un modo con cui i fedeli dovrebbero empatizzare con le persone più povere, sfortunate e prive di mezzi; rappresenta un momento di riunione della comunità, soprattutto nei momenti in cui dopo le lunghe ore di digiuno ci si riunisce in famiglia o con altri fedeli per pregare e rifocillarsi, e, pertanto, è un modo per mantenere vivo un senso di appartenenza e di identità.
Inoltre, tra le buone ragioni dell’esercizio della pratica anche in ambito lavorativo o in contesti diversi da quelli privati o strettamente legati al culto di provenienza c’è il fatto che dal punto di vista sociale, il lavoro, nella società odierna, sta assumendo un ruolo preponderante nella vita degli individui assorbendo molti spazi della vita quotidiana in termini non solo quantitativi e di monte ore ma anche qualitativi. Pertanto, è legittimo che parte della cura dello spirito sia eseguita anche durante quella parte della giornata che è dedicata alla prestazione lavorativa. 
 

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