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Kafala
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Test culturale

1. La categoria “cultura” (o religione) è utilizzabile?
​Sì. Sia la categoria cultura che religione sono utilizzabili. La kafala islamica, oltre essere considerata una “buona pratica” religiosa, è un sistema formale istituzionalizzato giuridicamente di protezione dell'infanzia in cui una persona (kafil) accetta di prendersi cura, educare e guidare un bambino (makfoul) su base volontaria, senza stabilire un legame di filiazione. Difatti, a differenza dell'adozione occidentale, nella kafala il minore non rinuncia alla sua famiglia d'origine e non acquisisce un legame di parentela con il suo tutore.
2. Descrizione della pratica culturale (o religiosa) e del gruppo.
 La kafala è un istituto di protezione dell'infanzia che esiste nei Paesi islamici e che tradizionalmente risponde a due situazioni diverse:

  1. la protezione dei bambini orfani, abbandonati o trascurati, attraverso l'assegnazione giudiziale della tutela a una famiglia musulmana che soddisfi determinati requisiti, e
  2. l'assistenza familiare attraverso l'assegnazione della tutela di un bambino a un membro della famiglia allargata.
 
Il termine kafala ha avuto diversi significati nell'arabo classico fra i quali: tutela (daman) e cura (dalla radice del verbo ka-fa-la). Il concetto di tutela si divide in: tutela che si concentra sulla fornitura di beni (denaro e proprietà) e tutela educativa (moralità e spiritualità). L'educazione dei valori islamici è enfatizzata nella kafala e, per questo motivo, i kafili devono essere dei buoni musulmani, solo in questo modo l'educazione del makfoul potrà essere loro affidata.
La kafala si suddivide in due tipologie: la kafala notarile e la kafala giudiziaria. La kafala notarile si costituisce quando il bambino non è stato abbandonato, né esiste una sentenza che lo dichiari tale; qui i genitori che non possono permettersi di occuparsi del bambino consegnano il figlio a un kafil per mezzo di un atto. Mentre la kafala giudiziaria è stabilita da un giudice, perché il bambino è stato dichiarato abbandonato oppure orfano.
Nella cultura islamica vi è il divieto di adozione, che trova le sue origini nel Corano, versetti 4 e 5 della Sura XXXIII, e ciò è legato alla costruzione sociale della famiglia nella religione musulmana. La kafala è perciò una risposta al divieto del Corano di adottare, ed è diventata l'istituto giuridico più importante per la tutela dei minori abbandonati o in difficoltà. Essa presenta diverse differenze rispetto all’adozione italiana soprattutto in quanto il minore conserva i legami con la famiglia biologica e l’istituto non è permanente.
Secondo i dettami della religione la parentela si trasmette agli uomini attraverso il sangue e alle donne attraverso il matrimonio, e per ogni musulmano c'è l'obbligo di preservare questa continuità. Questo spiega perché a un bambino makfoul non sia permesso acquisire i cognomi della nuova famiglia: un cambio di cognome simboleggerebbe un legame fittizio e una rottura con la famiglia biologica, con il passato e con la consanguineità. L'influenza del fattore religioso si riflette anche nei requisiti per ottenere la kafala, in quanto il kafil è tenuto a professare l'Islam e a impegnarsi a educare il bambino all'Islam con dedizione.
Va notato che la durata della kafala non è permanente, poiché cessa quando il makful raggiunge la maggiore età, sebbene questa disposizione non si applichi nel caso di una figlia non sposata o di un figlio che non è in grado di provvedere ai propri bisogni, ma anche per la morte del makful, per la morte o l'incapacità del kafil o per l'incapacità congiunta dei due coniugi responsabili della kafala.

3. Inserire la singola pratica nel più ampio sistema culturale (o religioso).
L'origine della proibizione della kafala si trova nel Corano, e ha a che fare con degli aspetti della vita di Maometto, che era orfano e aveva un figlio adottivo, Zayd. La legge, difatti, fu cambiata e l'adozione fu proibita su ispirazione di un versetto del Corano in cui si dice che il Profeta adottò Zayd dandogli il suo cognome, e Zayd si sposò con Zaynab; ma il Profeta si innamorò di Zaynab, e Zayd decise di lasciare la moglie per riconoscenza nei confronti di Maometto, che successivamente sposò Zaynab. Questo portò a un conflitto morale sull'incesto, e ci spiega il perché l'adozione sia proibita dall'Islam: se l'adozione fosse stata riconosciuta, Maometto non avrebbe mai potuto sposare Zaynab, in quanto avrebbe sposato la moglie del figlio.
Nonostante l'adozione non sia riconosciuta, il Corano sottolinea l'importanza di mantenere gli orfanotrofi come una responsabilità sociale primaria, che deve essere rispettata e che riguarda tutti i membri della comunità. Il testo sacro dell’Islam, perciò, regola la cura e la tutela dei diritti materiali e morali dei giovani indigenti nella figura della kafala come istituzione sociale, religiosa e giuridica di tutela permanente e di assistenza.
È importante notare che, sebbene i sistemi giuridici musulmani si basino sulla legge divina, la maggior parte dei Paesi musulmani non applica direttamente la legge islamica, in quanto dispone di propri codici di diritto che, pur ispirandosi alla legge islamica, variano da un Paese all'altro. Ciò significa che i requisiti formali e il funzionamento della kafala variano da Paese a Paese. Ad esempio, il Pakistan ammette la kafala internazionale, così come il Regno del Marocco, mentre la Mauritania, l'Iran e l'Egitto non ammettono la kafala internazionale. Inoltre, altri Paesi di tradizione islamica, come l'Indonesia e la Tunisia, oltre ad ammettere la kafala, consentono anche l'adozione.
 
4. La pratica è essenziale (alla sopravvivenza del gruppo), obbligatoria o facoltativa?
La pratica può risultare di gran aiuto per i bambini in difficoltà e, pur non essendo vincolante, è considerata una “buona pratica” religiosa per poter essere un “buon musulmano”.
I bambini orfani che vivono nei Paesi islamici, non essendo legalmente adottabili, sono orfani "per sempre"; tuttavia, l'esistenza di una figura di protezione come la kafala islamica, fa sì che molti di questi bambini vengano integrati nelle famiglie, e che trovino un percorso di vita di protezione all’interno di un nuovo nucleo familiare, risultando così un prezioso strumento per aiutare i bambini in difficoltà.
 
5. La pratica è condivisa dal gruppo o è contestata?
La pratica della kafala è largamente condivisa nel mondo musulmano. Essa è utilizzata sia nei paesi islamici che, negli ultimi anni, da un lato da famiglie europee come alternativa all'adozione internazionale e, dall'altro, da famiglie musulmane immigrate in Europa come strategia migratoria basata sulla solidarietà intrafamiliare.
 
6. Come si comporterebbe la persona media appartenente a quella cultura (o religione)?
La kafala è una pratica diffusa e accettata, perciò è comune vedere una sua applicazione in molti gruppi familiari islamici.
7. Il soggetto è sincero?
In questo caso l’accertamento della sincerità del soggetto sarebbe volta a evitare che i soggetti deputati alla cura e assistenza del minore, utilizzino l’istituto per eludere i criteri necessari per l’adozione dei minori o altre norme previste a protezione degli stessi nel panorama internazionale, attuando trasferimenti dei minori da un paese di provenienza a un altro in assenza di qualsiasi volontà di cura e assistenza ma magari con intenti abusanti, di sfruttamento o di tratta.
In merito a tale accertamento occorre ribadire che, quando si tratta di kafala giudiziale, la valutazione dello stato di bisogno del minore, della volontà di affido da parte della sua famiglia di provenienza, nonché quella del kafil di garantire cura e assistenza, sono previamente accertate da un’autorità giudiziaria territorialmente competente che emette un vero e proprio provvedimento giurisdizionale.
Il problema sarebbe altresì più presente nei casi di kafala negoziale, in cui l’omologazione dell’”affido” presso un’autorità è solo facoltativa e in ogni caso ha una funzione dichiarativa. In questo caso, come in parte indicato dalla giurisprudenza, sarebbe opportuno indagare la sussistenza nel caso concreto dell’interesse superiore del minore e in questo senso:
- sulla natura e finalità dell'istituto richiamato dalle parti (kafala negoziale o giudiziale);
- sulla corrispondenza dello stesso con le norme di diritto interno dello Stato di provenienza;
- sulla individuazione dell'effettiva ragione pratico-giuridica della kafala (stato di abbandono e indigenza nella kafala giudiziale; volontà di offrire al minore una cura e assistenza migliore nella kafala negoziale);
- sulla eventuale esistenza di un accordo implicito od esplicito tra le parti (famiglia del minore – kafil);
- sulla tipologia di un legame preesistente tra la famiglia d’origine del bambino e il kafil.
Altre valutazioni possono essere volte, nei casi dubbi, successivamente al riconoscimento dell’istituto attraverso il monitoraggio da parte dei servizi sociali rispetto al rapporto tra il minore e il kafil, all’eventuale mantenimento dei rapporti con la famiglia di origine e in generale alla non sussistenza di situazioni di abuso.
8. La ricerca dell’equivalente culturale. La traduzione della pratica della minoranza in una corrispondente pratica della maggioranza (italiana). ​
 
La kafala presenta degli elementi similari a quelli dell’affido temporaneo. Nella kafala, infatti, così come nella famiglia affidataria, deve essere garantita la piena partecipazione del minore alla vita della famiglia e si deve adempiere l'obbligo di accudirlo, tenerlo in compagnia, nutrirlo, educarlo e fornirgli un'educazione integrale. Anche nell’affido temporaneo non vi è rapporto di filiazione e vi è il mantenimento dei rapporti con la famiglia di origine. Da questo punto di vista, quindi, è evidente l'avvicinamento o la somiglianza di questa misura di protezione dell'infanzia con la kafala, che si configura come un istituto di protezione di natura formale, attraverso il quale il minore viene inserito in una famiglia con lo scopo che gli affidatari si prendano cura di lui, lo nutrano, lo educhino e lo proteggano in assenza dei genitori, senza però, e qua risiede la differenza con l’adozione nell’ordinamento italiano, che ciò implichi alcun legame di filiazione tra il minore e i kafili. In qualche misura l’istituto potrebbe inoltre equipararsi a quella figura particolare di adozione, definita dalla giurisprudenza come adozione mite, con la differenza che in questo caso il rapporto non è temporaneo, si genera una filiazione ma al contempo vi è un mantenimento costante dei rapporti con la famiglia di origine del minore.
È bene evidenziare che forme di co-genitorialità e di solidarietà familiare legate alle tradizioni culturali sono sempre state presenti anche in Italia, soprattutto prima che gli interventi della riforma del diritto di famiglia (1975) introducessero gli istituti odierni di protezione dell’infanzia come l’adozione e l’affido temporaneo (L. 184/1983). In Sardegna, ad esempio, il riferimento è a quella forma di genitorialità condivisa che portava il minore ad essere affidato ad un altro nucleo familiare interno alla propria parentela o comunque della propria comunità, mantenendo i rapporti con la propria famiglia di origine ma allo stesso tempo usufruendo dell’assistenza materiale e morale della famiglia ospitante di cui era “figlio d’anima” e spesso anche erede. Tali pratiche, di cui sono presenti tracce in tutta Italia, rispondevano a forme di solidarietà familiare reciproca: la famiglia “ospitante” era spesso una famiglia senza figli, si vedeva dunque attenuata nella sofferenza della mancata discendenza o della solitudine, in epoche in cui anche socialmente non avere figli era visto come una forma di disgrazia; la famiglia affidante aveva la possibilità di alleggerire i propri sforzi ma allo stesso garantire condizioni di vita dignitose se non anche migliori ad alcuni dei propri figli.
 
9. La pratica arreca un danno? ​
No. A meno che non sia uno strumento utilizzato per agevolare la tratta di minori verso i paesi occidentali o si caratterizzi per ipotesi di maltrattamento o sfruttamento degli stessi, non arreca alcun danno perché si pone come uno strumento a protezione dei minori, come riconosciuto anche da alcune convenzioni internazionali in materia di tutela dell’infanzia. La valutazione di merito circa la regolarità dell’istituto è accertata, nel caso della kafala giudiziale dall’autorità giurisdizionale dei luoghi di provenienza dei minori e omologata da autorità pubbliche, in alcuni casi, anche quando si tratti di kafala negoziale. In ogni caso i rapporti disfunzionali possono essere facilmente individuati grazie al monitoraggio dell’autorità giudiziaria e dei servizi sociali. Per quanto riguarda il pericolo di aggirare le norme sulle adozioni internazionali, talvolta paventato in passato da parte della giurisprudenza e della dottrina, la kafala non realizza alcun rapporto di filiazione e non si configura come un’adozione.
​10. Che impatto ha la pratica della minoranza sulla cultura, valori costituzionali, diritti della maggioranza (italiana)?
 La pratica non ha un impatto negativo sulla cultura di maggioranza. Si configura infatti come una forma di solidarietà familiare molto simile a quelle che si sono da sempre attuate nelle comunità e nelle reti sociali, inoltre ha una valenza simile agli istituti dell’affido temporaneo, della tutela e della curatela. In alcuni casi gode del riconoscimento di un’autorità competente per il luogo di provenienza del minore per cui è facilmente riconoscibile come istituto ufficializzato.
 
La kafala è coerente con i valori costituzionali a tutela dell’infanzia. È un istituto che garantisce infatti, nel diritto islamico, la protezione, la cura e l’assistenza dei minori in condizioni di abbandono o di indigenza, che valorizza forme di solidarietà familiare costruite sulla base della volontarietà e sulla eventuale sussistenza di reti sociali preesistenti tra il kafil e le famiglie di origine dei minori. Permette pertanto di favorire migliori condizioni di vita del minore, agevolarne lo stanziamento in paesi che garantiscano maggiori libertà e prospettive, rispetto a quelli di provenienza, ad esempio nel caso dei ricongiungimenti; tutela l’unità familiare garantendo il mantenimento del rapporto con la famiglia di origine e allo stesso tempo valorizza le relazioni affettive di fatto anche quando manchi una consanguineità.
 
Sulla base dell’evoluzione giurisprudenziale e delle norme di diritto internazionale la kafala è un istituto a protezione dell’infanzia, ormai ritenuto compatibile con l’ordinamento italiano, perché in astratto volto a realizzare il superiore interesse del minore, non in contrasto con le norme in materia di adozione e affido stabilite nella legge 184/1983 e inoltre riconosciuta come tale sia dalla Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1989 (legge di ratifica n. 176/1991) sia dalla Convenzione dell'Aja sulla competenza, la legge applicabile, il riconoscimento, l'esecuzione e la cooperazione in materia di responsabilità genitoriale e di misure di protezione dei minori del 19.10.1996 (legge di ratifica n. 101/2015).
 
11. La pratica perpetua il patriarcato?
No.
12. Che buone ragioni presenta la minoranza per continuare la pratica? Il criterio della scelta di vita ugualmente valida.
Si tratta dell’unico istituto a tutela dell’infanzia dei minori abbandonati o senza genitori previsto nel diritto islamico. Per questo motivo la minoranza vede nella kafala il veicolo unico per poter usufruire del sistema di protezione dell’infanzia e per poter applicare quella che è considerata una “buona pratica” religiosa.
Il suo mancato riconoscimento come strumento di cura dei minori o anche al fine del ricongiungimento familiare avrebbe penalizzato in particolare i minori provenienti da Paesi arabi e di religione islamica (orfani, in stato di abbandono o semplicemente provenienti da famiglie indigenti) per i quali la kafala è l'unico istituto di protezione previsto, non sussistendo l’adozione. Inoltre, il fatto che il legame sia accertato dal provvedimento dell'Autorità straniera consente di avere maggiori garanzie circa l'effettività delle esigenze di affidamento del minore e circa l'idoneità del kafil di occuparsi dello stesso.

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