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Genitorialità

Test culturale

1. La categoria “cultura” (o religione) è utilizzabile?
​Sì, la categoria cultura è utilizzabile: il modo di essere genitori, sia per quanto concerne comportamenti che emozioni/sentimenti associati al ruolo, è appreso all’interno del gruppo di socializzazione, presso cui è trasmesso intergenerazionalmente. È però importante tenere in considerazione che non è possibile identificare nello specifico una relazione fissa e univoca tra determinate modalità genitoriali e una determinata cultura, in quanto entrano in gioco ulteriori fattori complementari e variabili, quali condizioni socioeconomiche della famiglia in questione, eventuali situazioni/fragilità personali, eventi traumatici relativi ad un eventuale percorso migratorio (es. sfruttamento nella tratta; perdite di familiari nel percorso migratorio; perdite insite nella migrazione in sé: perdita del supporto familiare, degli amici e della comunità, perdita della facilità di comunicazione nella propria lingua madre, cambiamenti obbligatori nelle abitudini alimentari, nei costumi, perdita delle molteplici connessioni con la propria rete sociale) che influenzano tali modelli.
Soprattutto per quanto riguarda l’idea di genitorialità, è fondamentale prendere in considerazione quanto l’elemento culturale sia sì una componente da considerare nella valutazione del soggetto in questione, ma anche un punto di partenza/una lente di osservazione implicita per il/la valutatore stesso/a (giudici, operatori socioassistenziali, psicologi etc.). Anche questi ultimi sono, infatti, inseriti in un determinato contesto culturale che propone uno specifico modello di genitorialità e di famiglia, che però non costituisce un modello standard universale
2. Descrizione della pratica culturale (o religiosa) e del gruppo.
La genitorialità è trattata in questo Vademecum come una pratica culturale articolata e composita, che raggruppa tutti quei comportamenti, attitudini, sentimenti che un soggetto attua nel crescere un figlio. Non si vuole proporre una definizione univoca di genitorialità, quanto invece descrivere alcuni comportamenti rilevanti a livello giuridico legati a questo concetto. La genitorialità, in sintesi, viene qui intesa come un cluster (fascio di comportamenti) il cui prisma di selezione è per lo più derivante da una casistica giurisprudenziale e sociale.
Da questa casistica e dalle numerose testimonianze provenienti dal settore dell’assistenza sociale, direttamente coinvolto nella gestione delle famiglie migranti è possibile far emergere una ripartizione esemplificativa, seppure non esaustiva, dei comportamenti e prassi legati alla genitorialità e influenzati dal fattore culturale:
 
1) prassi genitoriali attuate perché profondamente radicate nella cultura di provenienza; sono viste dal genitore come il miglior modo di esercitare la propria funzione genitoriale e trasmettere il patrimonio dei propri valori, soprattutto in un contesto di lontananza dalla terra di origine; talvolta vengono ritenute come espressione di cattiva genitorialità o patologizzate dalla cultura maggioritaria.
Si pensi alle prassi di affidamento all’interno di una famiglia allargata o dove il bambino è percepito come più autonomo dei bambini italiani. Ad esempio, la presenza e l’importanza del ruolo delle figure genitoriali non sono uguali in tutte le società, lasciando invece spazio ad altre figure che si occupano della crescita e dell’educazione della prole. Presso una popolazione della Tanzania, ad esempio, dopo lo svezzamento si assiste ad un distacco del figlio/della figlia dalla famiglia di origine. Il figlio/a viene preso in custodia dalla nonna materna, andando a creare un’unione durevole (fino ai 6-7 per i maschi, fino al matrimonio per le femmine). La nonna svolge funzioni educative e formative, che solitamente associamo alle figure genitoriali. In un contesto di migrazione, la madre che affida in toto il bambino alla nonna potrebbe essere vista come inadempiente rispetto ai suoi doveri genitoriali.
In alcuni gruppi è comune che ai figli più grandi vengano affidati i figli più piccoli perché il bambino è ritenuto pienamente capace di prendersi cura dei fratelli minori. La cultura maggioritaria potrebbe vedere tale comportamento come abbandoni di minore.
Non solo in contesti non occidentali, ma anche all’interno del vicino e familiare panorama europeo esistono comportamenti di cura molto distanti da quelli italiani. Ad esempio, in Svezia e Danimarca i bambini vengono lasciati uscire nella neve senza vestiti o capita che neonati vengano lasciati nei passeggini all’aperto a fare il “riposino” (incustoditi), mentre la famiglia si trova al caldo in casa, in quanto si pensa che tempri e faccia bene al bambino. Similmente, vista l’alta fiducia sociale esistente in queste società, è comune che, se i genitori si recano in un ristorante o bar, il passeggino del bambino venga lasciato fuori del locale incustodito.
In questo gruppo di pratiche viste come problematiche dalla cultura maggioritaria potrebbero, inoltre, rientrare: forme di coccole sui figli quali baci e carezze sui genitali prive di intento sessuale, dati a scopo di saluto, di celebrazione della virilità, di accettazione totale e incondizionata del bambino (si vedano le voci Manifestazioni di affetto sui genitali dei minori e Omaggio ai genitali del bambino in questo Vademecum); la prassi tipica di alcune madri provenienti dall’Africa di “fare le treccine” alle proprie figlie, pratica laboriosa e spesso stancante per la bambina, non da individuarsi in una ossessione ingiustificata, ma in una vera e propria modalità di insegnare la cura del proprio corpo; le differenti modalità di manifestazione di affetto (condotte considerate troppo affettive oppure condotte considerate troppo evitanti); l’espressività emozionale (es. il tono della voce che appare sempre adirato, ma che appartiene ad una modalità espressiva che il bambino non percepisce come aggressiva in quanto è un tratto culturale che il bambino è perfettamente in grado di contestualizzare); una forte fiducia nella medicina tradizionale o nella religione; la differente organizzazione dei ruoli nell’educazione dei figli basata sul genere; il coinvolgimento dei figli nell’attività lavorativa dei genitori (che potrebbe confliggere con le norme sul lavoro minorile); modalità di svezzamento con cibi da noi ritenuti “troppo” piccanti. Ogni società, compresa la nostra, sviluppa quindi dei modelli genitoriali che ritiene adeguati allo scopo, con delle pratiche e dei modelli di genere e/o di ruolo genitoriale non definibili universalmente.
 
2) prassi che non sono strettamente culturali, ma che costituiscono per lo più una risposta ad alcune difficoltà nella genitorialità derivanti soprattutto dal fatto che essa viene vissuta in un contesto culturale differente e di lontananza dalla propria comunità, con una forte influenza di variabili biografiche, economiche, elementi connessi all’esperienza di migrazione vissuta. Queste variabili, talvolta, vengono culturalizzate dagli operatori giuridici e sociali.
In questo secondo gruppo potrebbero rientrare: il particolare rapporto di attaccamento, tra madre e bambino, talvolta ritenuto “possessivo”; atteggiamenti aggressivi o di chiusura nei confronti degli operatori sociali rispetto ai tentativi di assistenza o al contrario atteggiamenti di totale delega delle proprie funzioni genitoriali alle strutture di accoglienza; l’affidamento temporaneo dei propri figli a vicini di casa o altri soggetti con cui si è instaurato un rapporto di fiducia; insofferenza verso i percorsi di educazione alla genitorialità o rispetto alle modalità restrittive degli incontri nel caso di limitazione degli stessi (spesso molto brevi, svolti sotto stretto controllo degli operatori e non necessariamente nella lingua di origine dei genitori); sfiducia nelle istituzioni sociali e sanitarie statali, soprattutto in relazione al momento della maternità o in percorsi di cura di patologie dei propri figli o del genitore stesso; eccessiva fiducia in sistemi spirituali e religiosi; altri e vari comportamenti indicativi di una semplice inesperienza riguardo alla maternità/ genitorialità (temperatura bagnetto, cadute accidentali dei bambini etc.).
 
3. Inserire la singola pratica nel più ampio sistema culturale (o religioso).
3. Inserire la singola pratica nel più ampio sistema culturale.
 
I diversi modelli e approcci alla genitorialità rientrano in un più ampio contesto culturale che guida e definisce l’idea stessa di famiglia e il modo di crescere e educare i propri figli/figlie. Tali contesti sono ovviamente differenti a seconda del paese/cultura che si prende in considerazione, ma variano al tempo stesso sulla base di ulteriori fattori, più personali e individuali (ad esempio classe sociale, livello di istruzione, ecc.).
Famiglia, e parentela più in generale, non possono essere considerate come istituzioni fondate semplicemente sulla «natura», in quanto regole e diverse forme familiari sono storicamente e culturalmente variabili.
Le relazioni e i legami di parentela sono culturalmente costruiti e quindi suscettibili di cambiamenti sia nelle loro basi, dalla biologia al sociale e alla storia, sia nei diritti, nei doveri e negli obblighi specifici che costituiscono le relazioni.
L'idea di famiglia è un costrutto socioculturale e quella utilizzata nei Paesi occidentali non può rendere conto dell'intricata rete di relazioni che esiste tra le pratiche genitoriali, le relazioni tra coniugi e fratelli, le relazioni verticali e orizzontali tra i parenti, i legami coniugali, i contratti di matrimonio e gli accordi domestici in altre nazioni. È importante tenere in considerazione, ad esempio, che molte persone non aspirano necessariamente a un modello di famiglia nucleare. Se all’interno del vastissimo insieme comprendente i diversi tipi di famiglia troviamo una molteplicità di soluzioni diverse ed eterogenee, i suoi confini appaiono dunque sfumati.
Accanto al modello “italiano”, anch’esso in continua evoluzione e cambiamento, ed esso stesso caratterizzato da un notevole pluralismo, troviamo oggi modelli e relazioni familiari molto differenti, come ad esempio la famiglia allargata, la kafala (vedi voce in questo vademecum), la poligamia (ovvero famiglie con tanti coniugi), cure genitoriali e rapporti familiari che mostrano come il modello della famiglia mononucleare sia una goccia nel vasto mare dell’istituto “famiglia”.
La diversità dell'esperienza umana modella le relazioni umane in molti modi diversi e il background culturale costituisce quindi una potente base per concepire in modo diverso le norme genitoriali e per attuare pratiche diverse nell'educazione dei figli.
Oltre ad altri istituti, come la famiglia e i sistemi di parentela, le prassi genitoriali vanno inserite nel più ampio sistema della “cultura personale” ossia il modo in cui il singolo individuo incorpora il proprio sistema culturale nella propria biografia.
In tema di genitorialità, dunque, più che pretendere di inquadrare il singolo comportamento educativo in un sistema di categorizzazione culturale rigido e stereotipato è sicuramente più utile arricchire lo schema di indagine attraverso una lente ulteriore che colga le molteplici sfumature della variabile culturale e le sue influenze sia sulla prassi educativa che sul giudizio dell’osservatore.
Mantenere uno sguardo critico e non rigido può quindi permettere di cogliere la complessità e la fluidità delle relazioni familiari, facendo luce su comportamenti talvolta difficili da comprendere. Secondo questa prospettiva, ad esempio, quello che spesso viene definito rapporto “possessivo” tra madre e bambino, gli atteggiamenti aggressivi o di chiusura nei confronti degli operatori sociali, così come l’insofferenza verso i percorsi di educazione alla genitorialità o rispetto alle modalità restrittive degli incontri, potrebbero essere ricondotti al timore dei genitori di perdere quei figli, su cui hanno riposto l’aspettativa di una vita migliore, o di lasciarli all’educazione di estranei. In alcuni paesi, ad esempio, la visione di assistenza alla genitorialità/maternità non è necessariamente rappresentata dallo Stato o da operatori sconosciuti, ma molto di più dalla famiglia (suocera, madre, nonne, donne anziane della comunità etc.). Inoltre, per alcune donne nigeriane vittime di tratta, è emerso talvolta come la maternità venga associata a un significato di completamento e/o di redenzione, vissuta come un modo per “cancellare” il passato della prostituzione.

4. La pratica è essenziale (alla sopravvivenza del gruppo), obbligatoria o facoltativa?
Visto che la genitorialità non consiste in una pratica univoca, dipende da quale pratica si prende in considerazione. Ci sono casi in cui il genitore si sente un cattivo genitore se non adotta certi comportamenti che vanno, pertanto, ritenuti obbligatori: ad esempio, punire il figlio che si comporta male; trasmettere un credo religioso, mandando il figlio a frequentare scuole religiose; non separarsi dal bambino o affidarlo soltanto a familiari fidati fino a che non raggiunge una certa età (es. gruppi rom); non mandarlo all’asilo nido in quanto vista come una pratica di trascuratezza e abbandono verso il minore (es. gruppi rom). Va, in ogni caso, tenuto in considerazione che anche quando l’adesione ad un determinato modello di accudimento e crescita dei propri figli sia qualcosa che si basa su una decisione facoltativa, tale modello viene considerato generalmente come il migliore e più adeguato a tale scopo, arrivando a considerare come sbagliati, problematici o negativi altri approcci genitoriali.
 
5. La pratica è condivisa dal gruppo o è contestata?
Le varie pratiche che costituiscono la genitorialità sono generalmente condivise dal gruppo di appartenenza, fatte salve divergenze endoculturali e la pluralità di metodi educativi dentro una stessa cultura (es. genitori più permissivi e più severi). Va, tuttavia, tenuto in considerazione che non vi è un modello unico valido per tutti, per cui anche all’interno dello stesso gruppo possiamo in realtà trovare diversi approcci genitoriali/familiari.
6. Come si comporterebbe la persona media appartenente a quella cultura (o religione)?
Il genitore medio seguirebbe i dettami della cultura dalla quale ha appreso come fare il genitore, in particolare se convinto che questo corrisponda all’interesse del bambino. Sono possibili adattamenti al nuovo contesto di inserimento sia per motivi strategici (es. evitare di lasciare il bambino da solo in casa con i fratellini più grandi per evitare di perdere la potestà genitoriale) sia per convinzione che il comportamento della maggioranza sia ugualmente benefico per il bambino (es. madri africane che abbandonano la pratica di portare il bambino in braccio a favore del passeggino ritenuto, da altre donne, come uno strumento che separa la madre dal bambino e che impedisce al bambino di vedere il mondo, cosa invece possibile dalle braccia della madre).
 
7. Il soggetto è sincero?
Ai fini di una migliore valutazione delle competenze genitoriali, soprattutto se inerenti a genitori stranieri, sarebbe opportuno indagare:
 
  • sull’effettiva esistenza di quella visione di genitorialità e quel comportamento nella cultura di origine;
  • sull’esperienza migratoria dei singoli individui (quali sono i motivi che hanno spinto il soggetto a emigrare, se si tratta di una migrazione voluta o che si sarebbe preferito evitare, le reti sociali che si sono abbandonate nella terra di origine, il ruolo di tali reti nel sostegno alla genitorialità, eventuali perdite durante il percorso di migrazione, eventuali episodi di tratta e sfruttamento, violenze subite e altre esperienze traumatiche);
  • sul contesto delle relazioni famiglia – ambiente (esistenza o meno di punti di riferimento nella stessa comunità di origine; analisi dei legami con istituzioni scolastiche e di altro tipo)
  • sulla spiritualità (forti legami con la religione o alcune forme di credenze nella medicina tradizionale fanno parte del bagaglio culturale delle madri, non sono semplici “deliri mistici”, costituiscono un modo per i soggetti di accettare, elaborare e affrontare circostanze altrimenti incontrollabili);
  • sulle differenze percepite dal genitore tra il vivere la genitorialità qui o nella propria comunità di origine;
  • sulle differenti modalità comunicative tra genitori e figli che possono essere differenti per cultura o anche per contesti (un genitore straniero potrebbe essere più autoritario in un contesto diverso da quello di provenienza perché non lo percepisce “sicuro” per i propri figli, mancando, nella propria prospettiva, una serie di reti sociali di ausilio).
 
 
8. La ricerca dell’equivalente culturale. La traduzione della pratica della minoranza in una corrispondente pratica della maggioranza (italiana). ​
All’interno dello stesso contesto italiano non è possibile individuare un unico modello di genitorialità, valido e riscontrabile in tutte le famiglie.
Molto evidenti risultano ancora ad oggi differenziazioni tra modelli familiari, modalità comunicative e espressività delle emozioni tra differenti parti d’Europa, d’Italia, così come tra differenti centri urbani (città - paese) o livelli di urbanizzazione (città - campagna). Sicuramente bisogna mettere in evidenza come alcune prassi ad oggi criticate perché poste in essere da stranieri, fossero particolarmente diffuse anche nella cultura maggioritaria: era frequente portare i propri figli sui luoghi di lavoro, soprattutto se si trattava di aziende private o familiari (ristoranti, strutture recettive etc.). Spesso questo coinvolgimento, in piccole operazioni per lo più simboliche era grande motivo di orgoglio per i minori che si sentivano parte di un tutto e sentivano di avere un ruolo. Questa prassi è ormai scomparsa nell’Italia urbana, anche a seguito della criminalizzazione del lavoro minorile, ma permane in Grecia, ad esempio, dove l’industria del turismo vede, soprattutto nel periodo estivo, mobilitare tutta la famiglia che gestisce la tipica taverna, includendo anche minori infra-sedicenni. Diffusa era la prassi di affidare temporaneamente i minori a parenti e vicini di casa.
Da un punto di vista interculturale, volto a porre in dialogo maggioranza e minoranza intorno a pratiche di crescita dei figli, viceversa, alcune prassi genitoriali italiane ad oggi diffuse e accettate potrebbero essere discusse sul piano della violazione di valori e diritti del minore da parte delle minoranze: spesso per ragioni lavorative i genitori italiani lasciano i propri figli per molte ore nelle istituzioni scolastiche, in altri contesti di accoglienza (oratori, ludoteche, campi estivi), o tendono ad impegnare tutta la giornata e tutte le giornate riducendo al minimo il tempo passato a casa. Anche queste sono forme di delegazione delle competenze genitoriali talvolta dovute dalla necessità, ma anche in parte da una precisa scelta educativa che vuole i minori sempre impegnati in attività potenzialmente produttive in linea con i valori del neo-liberismo capitalista e di una società competitiva che guarda al bambino per quello che saprà fare e produrre da grande e si preoccupa di farlo funzionare socialmente. 
9. La pratica arreca un danno? ​
Il requisito del danno potrebbe determinare un giusto indicatore a patto che non sia estremizzato. Costringere la propria figlia a farsi fare le treccine può corrispondere ad esempio per una madre proveniente da un dato paese africano a una forma di educazione alla cura del proprio corpo. Genera sicuramente un danno temporaneo sul minore che può sfociare in opposizioni, pianti, grida, manifestazioni di dolore. Tuttavia, è assai comune che anche per altre pratiche che riguardano le elementari norme di igiene possano presentarsi reazioni identiche (gran parte dei bambini in tenera età detesta “lavarsi” o in particolare lavarsi i capelli) non per questo si parla di genitori ossessionati dall’igiene o si danno indicazioni sul lavare i bambini il meno spesso possibile al fine di non sottoporli a traumi psichici e fisici, anzi quest’ultimo è considerato un atteggiamento che danneggia il minore, perché diseducativo.
In altre pratiche il danno potrebbe invece essere del tutto assente (affidamento temporaneo a persone di fiducia, partecipazione simbolica alle attività lavorative dei propri genitori), anzi potrebbero determinare l’accrescimento dei rapporti tra il minore, il genitore e la nuova comunità ospitante.
Alcune pratiche (es. ius corrigendi con percosse) producono un danno e andrebbero disincentivate.
Nella determinazione del danno sul minore causato da una pratica di genitorialità, questo andrebbe, comunque, sempre raffrontato con il danno che il minore subirebbe a seguito dell’allontanamento dalla famiglia. Si dovrebbe, infatti, tenere conto che, un livello di danno elevato in tema di genitorialità è presentato dai casi di allontanamento, soprattutto quando giustificati da un’interpretazione equivoca di alcune prassi genitoriali o da forme di genitorialità fragile, ma temporanee e risolvibili attraverso un aiuto strutturato e che tenga anche conto della cultura. L’allontanamento dai genitori recide il legame familiare e soprattutto in caso di minori stranieri, introduce il minore in un altro contesto culturale, rendendolo spesso poi incapace di assorbire alcuni caratteri della propria cultura di origine, generando forme di incomprensione e ostacolando qualsiasi condivisione anche nei brevi momenti di incontro con la famiglia di origine
​10. Che impatto ha la pratica della minoranza sulla cultura, valori costituzionali, diritti della maggioranza (italiana)?
Le aspettative di genitorialità di una data società sono fortemente influenzate dal contesto culturale di riferimento e dai modelli di attaccamento proposti e accettati in tale contesto.
La cultura maggioritaria percepisce la propria concezione di famiglia e genitorialità come la migliore esistente, replicabile in ogni contesto, e viceversa le altre come retrograde, crudeli o frutto di problematiche psichiche (disturbi della personalità soprattutto) spesso irrecuperabili e fortemente influenti sulle capacità di trasmettere modelli educativi adeguati alla società. Non si concepisce che i modelli educativi e di genitorialità più diffusi derivino da precise vicende storiche, sociali, come altresì da una strutturazione socioeconomica della società e non da un’evoluzione naturale e “nella giusta direzione”.
Alcune pratiche genitoriali dei migranti impattano soprattutto sulla visione dell’infanzia della società maggioritaria, totalmente puerocentrica, incentrata sul gioco e sulla spensieratezza, ma sono anche ritenute lesive dei valori della dignità, libertà e dell’autodeterminazione e dell’integrità psico-fisica.
In ambito giuridico ad esse è dato spesso un peso nella valutazione delle competenze genitoriali, nei procedimenti che riguardano la dichiarazione di stato di abbandono e/o di adottabilità, determinando l’allontanamento del minore dai propri genitori, temporaneo o definitivo, o una strutturazione del rapporto genitoriale ridotta al minimo mediante incontri in strutture protette. La legge n. 184 del 1983 e l’interpretazione giurisprudenziale delle sue norme in materia di adozione e stato di abbandono, stabilisce però che l’interesse preminente del minore sia quello di crescere nella propria famiglia di origine, a meno che non siano ravvisate forti forme di pregiudizio.
Nella valutazione dell’adeguatezza genitoriale non devono trovare spazio, secondo questi principi, forme di comparazione tra le condizioni economiche delle famiglie affidatarie e quelle di origine, né devono stigmatizzarsi ipotesi di “genitorialità fragile” che hanno invece necessità di essere sostenute dal sistema socio-assistenziale. In tema di affido, adozione e stato di abbandono è stato più volte ribadito che debba valutarsi la persistenza dello stato di abbandono e non la preesistenza, in un senso che dà rilievo principalmente alle condotte concrete e attuali dei genitori, da cui emerga un reale interesse nei confronti dei minori, piuttosto che ai fatti passati. Così come alcune pratiche nella loro interpretazione equivoca sono ritenute incidere sui diritti dei minori all’integrità psico-fisica, alla salute e all’istruzione, l’allontanamento dal nucleo familiare determina potenzialmente a sua volta danni all’integrità psico-fisica del minore, alla sua identità culturale (art. 2 Cost.), religiosa e spirituale - spesso impossibile da coltivare quando il minore è affidato a famiglie italiane in tenera età e destinato a incontrare i genitori biologici solo per brevi periodi di tempo - nonché al diritto alla vita privata e familiare (art. 8 Cedu).
 
11. La pratica perpetua il patriarcato?
In alcuni casi potrebbero verificarsi modelli educativi/genitoriali che hanno una determinazione di ruoli nella famiglia di origine differenti rispetto al modello ospitante e basati sul genere: ad esempio dare la paghetta più alta al bambino maschio e più bassa alla figlia femmina; dividere i compiti domestici in modo diseguale facendo svolgere soltanto alle figlie femmine i compiti di pulizia e ordine della casa e sgravando i maschi; nutrire maggiormente i figli maschi rispetto alle figlie femmine. A parte i casi in cui la discriminazione si traduce in situazioni di umiliazione e sofferenza per le bambine, va tenuto presente che non sempre pratiche genitoriali diversificate nella cura e crescita di figli maschi e femmine corrispondono a logiche patriarcali: esse, infatti, possono servire a preparare i giovani ai loro futuri ruoli di genere, funzioni riproduttive e a farli impratichire in certe attività (es. giochi differenziati tra bambini e bambine).
12. Che buone ragioni presenta la minoranza per continuare la pratica? Il criterio della scelta di vita ugualmente valida.
I differenti comportamenti genitoriali messi in pratica dalle minoranze vengono percepiti come i più adeguati al fine di crescere e educare la prole, portando a considerare pratiche differenti come scorrette o negative. Inoltre, la famiglia, e quindi i diversi modelli di genitorialità, sono fondamentali per trasmettere a livello intergenerazionale i valori condivisi dal gruppo di appartenenza. Spesso, in contesti migratori, l’educazione dei figli/delle figlie secondo il modello proposto dalla propria comunità viene percepito come fondamentale al fine di tenere saldo il legame con il proprio vissuto culturale.
 

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