ANTHROJUSTICE
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Velo islamico

Approfondimenti giuridici 

Legislazione italiana in materia di abbigliamento religioso
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La normativa di riferimento a livello nazionale.

In Italia, non v’è una norma statale che vieti esplicitamente di indossare il velo o altri tipi di indumenti religiosi. In particolare, non è vietato l’uso di indumenti come niqāb o burqa negli spazi pubblici, anche se si tratta di indumenti che rendono difficile l’identificazione del soggetto che li indossa.
L’articolo 5 della legge n. 152 del 22 maggio 1975 [1] proibisce l’uso di caschi protettivi o dispositivi che possano ostacolare il riconoscimento della persona in luoghi pubblici o aperti al pubblico, a meno che vi sia un giustificato motivo. Questa disposizione è stata originariamente concepita per affrontare il terrorismo di matrice politica degli anni Settanta in Italia, ma alcuni comuni hanno proposto un’interpretazione tesa a vietare anche l’uso del “velo che copre il volto”. Tuttavia, il Consiglio di Stato ha emesso una sentenza nel 2008 (sentenza n. 3076/2008) nella quale si chiarisce che il burqa e il niqāb non sono generalmente finalizzati a evitare il riconoscimento, ma piuttosto a seguire una tradizione religiosa. Di conseguenza, l’articolo 5 non può essere utilizzato come fondamento giuridico per vietare l’uso del velo integrale per motivi religiosi o culturali. In base alla sentenza, “Un divieto assoluto vi è solo in occasione di manifestazioni che si svolgano in luogo pubblico o aperto al pubblico, tranne quelle di carattere sportivo che tale uso comportino. Negli altri casi, l’utilizzo di mezzi potenzialmente idonei a rendere difficoltoso il riconoscimento è vietato solo se avviene “senza giustificato motivo.” Con riferimento al “velo che copre il volto”, o in particolare al burqa, si tratta di un utilizzo che generalmente non è diretto ad evitare il riconoscimento, ma costituisce attuazione di una tradizione di determinate popolazioni e culture.”
“Resta fermo che—sempre secondo il Consiglio di Stato—tale interpretazione non esclude che in determinati luoghi o da parte di specifici ordinamenti possano essere previste, anche in via amministrativa, regole comportamentali diverse, incompatibili con il suddetto utilizzo, purché ovviamente trovino una ragionevole e legittima giustificazione sulla base di specifiche e settoriali esigenze.”
In Lombardia, è stato introdotto un divieto di accesso alle strutture pubbliche regionali per chi cela il volto, anche per motivi religiosi. Questo divieto è stato stabilito dalla Delibera della Giunta Regionale (D.g.r.) del 10 dicembre 2015, n. X/4553. Il Tribunale di Milano ha confermato la legittimità di questa restrizione nel 2017, respingendo un ricorso presentato da alcune associazioni. Il Tribunale ha considerato il divieto giustificato dalla necessità di garantire l’identificazione dei soggetti che accedono alle strutture regionali per motivi di pubblica sicurezza. La Corte d’Appello ha condiviso queste motivazioni nella sentenza n. 4330/2019, sostenendo che la delibera non sia discriminatoria, ma sia tesa a risolvere problemi di ordine pubblico e sicurezza in determinati luoghi pubblici.
Nel caso del Veneto, è stato emesso un Regolamento regionale (n. 2 del 2017) simile che vieta l’ingresso nelle strutture pubbliche regionali a chi copre il volto, anche se per ragioni religiose. Anche in questo caso, le restrizioni sono state giustificate dalla necessità di identificazione e controllo per la pubblica sicurezza.
L’uso di cartelli comunicativi che vietano l’ingresso con il volto coperto, contenenti immagini di persone con caschi, passamontagna e burqa, è stato criticato dalle corti, così come la mancanza di disponibilità da parte delle regioni a una soluzione conciliativa. Tuttavia, entrambe le corti hanno concluso che il divieto imposto alle donne musulmane integralmente velate fosse proporzionato e ragionevole, poiché è circoscritto nel tempo, nei luoghi e motivato da ragioni di sicurezza. (Si veda, Salem 2020: 385).
  
Gli enti locali
Le pratiche culturali legate all’uso del velo sono state oggetto di diversi tentativi di limitazione da parte di alcuni rappresentanti degli enti locali. Tali tentativi continuano tutt’oggi. Tuttavia, in Italia, alla luce della giurisprudenza e delle normative esistenti, il margine per l’imposizione di un divieto generale di indossare il velo o altri tipi di indumenti connessi a specifiche pratiche religiose e culturali, non conformi alla moda occidentale (es. il burkini) in luogo pubblico o aperto al pubblico, è estremamente limitato, se non inesistente.
In particolare, la via delle ordinanze sindacali è preclusa principalmente perché, alla luce della giurisprudenza del Consiglio di Stato e della Corte Costituzionale (sentenza n. 115 del 2011 della Corte Costituzionale), non è considerata una base giuridicamente adeguata. Più precisamente, era stata prospettata da alcuni sindaci la possibilità di introdurre tali divieti tramite ordinanze contingibili e urgenti (ex. art. 54, comma 4, del TUEL). Tuttavia, per poter adottare un’ordinanza contingibile e urgente, il sindaco deve dimostrare la presenza di situazioni di emergenza locali che richiedono una risposta immediata. Questa condizione rende estremamente limitato il margine per introdurre un divieto di indossare il velo integrale.
Anche se venisse adottato dal sindaco un provvedimento contingibile e urgente, esso dovrebbe comunque rispettare i principi fondamentali dell’ordinamento (principi di eguaglianza, ragionevolezza e non discriminazione).
Inoltre, qualsiasi provvedimento deve essere proporzionato all’obiettivo che si intende raggiungere. Un divieto generale di indossare il velo integrale dovrebbe essere considerato come una misura estrema e sarebbe necessario dimostrare che non esistono alternative meno invasive per affrontare il problema. (Sul tema si veda Cavaggion 2016).
 

Leggi anti-velo in Europa

​In Europa, riferimenti normativi riguardanti il divieto o la regolamentazione dell’uso del burqa e di indumenti simili variano da Stato a Stato. Di seguito sono forniti alcuni esempi di riferimenti normativi in alcuni paesi europei:
Francia
La Francia è uno dei paesi europei più noti per aver introdotto la legge n. 2004-228 del 15 marzo 2004 che regolamenta, in applicazione del principio di laicità, l’uso di segni o abbigliamento che manifestino un’appartenenza religiosa nelle scuole, nei licei e nei college pubblici.
La legge afferma il principio di laicità, che è uno dei principi fondamentali della Repubblica francese, e mira a preservare la neutralità religiosa nelle scuole pubbliche. Di conseguenza, vieta l'uso di simboli religiosi visibili, come il velo islamico, il turbante sikh, la croce cristiana, il kippah e altri simboli religiosi, nelle scuole pubbliche.
La legge n. 2010-1192 del 11 ottobre 2010 vieta di coprire il viso negli spazi pubblici. Nello specifico, in base all’art. 1 “Nul ne peut, dans l'espace public, porter une tenue destinée à dissimuler son visage” “Nessuno può, nello spazio pubblico, indossare un abbigliamento destinato a nascondere il proprio viso.” Di fatto, tale norma, proibisce il velo integrale o qualsiasi altra copertura del viso nei luoghi pubblici. La Grande Chambre della Corte europea dei diritti dell'uomo, nel luglio 2014, ha stabilito che il divieto generale di coprire il viso in luoghi pubblici, come previsto dalla legge francese n. 2010-1192, non costituisce una violazione degli articoli 8 e 9 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. (S.A.S. c. France GC - 43835/11) Nell’ambito della sentenza GC - 43835/11 è interessante la posizione del Governo francese, secondo il quale, la legge n. 2010-1192 è finalizzata sia alla protezione della pubblica sicurezza sia al rispetto del “socle minimal des valeurs d’une société démocratique et ouverte”, che si traduce nel rispetto dell’eguaglianza di genere, della dignità umana e del mantenimento dei requisiti minimi necessari per la convivenza armoniosa, noto come “vivre ensemble”. Tra questi valori, solo l’ultimo viene collegato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo alla “protezione dei diritti e delle libertà altrui”, come previsto negli articoli 8 e 9 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e pertanto è riconosciuto come uno scopo legittimo della legge in questione. (Olivito 2014)
Nel 2021 furono introdotte delle misure mirate a prevenire l’indottrinamento da parte di gruppi islamisti con l’obiettivo di limitare la visibilità pubblica dell’Islam (Legge n. 2021-1109 du 24 agosto 2021). Mentre le leggi precedenti avevano vietato simboli religiosi, la legge del 2021 cercò di distinguere più chiaramente tra il diritto dei musulmani di praticare la propria religione e la necessità di prevenire l’indottrinamento islamista. Tuttavia, la legge non affrontò in modo adeguato le disuguaglianze e le discriminazioni subite dalle minoranze postcoloniali, lasciando molti musulmani in una posizione svantaggiata e alimentando il malcontento su cui gli islamisti possono fare leva.(Hargreaves 2023).
In previsione della riapertura delle scuole pubbliche in Francia, nel 2023, il ministro dell’Istruzione Gabriel Attal ha emesso una circolare che proibisce di indossare in classe l’abaya, un lungo abito che copre completamente il corpo ed è ampiamente diffuso tra le donne del Medio Oriente, nonché sempre più utilizzato da giovani donne musulmane francesi. L’abaya è originariamente un indumento tradizionale, ma in alcuni contesti può essere interpretato come un segno di appartenenza religiosa, sebbene il suo significato possa variare. La Francia è il primo paese occidentale a imporre un divieto di utilizzare l’abaya a scuola. La decisione francese solleva questioni sulla laicità e sulla percezione dei simboli religiosi nelle istituzioni scolastiche, così come sulla sfida di equilibrare la diversità culturale con la promozione della laicità dello Stato. (Audureau 2023) Il Consiglio del Culto Musulmano (CFCM) ha preso posizione sulla questione e ha evidenziato che questa normativa aumenta il potenziale rischio di discriminazione. Secondo il CFCM, l’abaya è considerato un indumento tradizionale e non religioso. Questa controversia è di grande rilevanza, considerando che circa il 10% della popolazione francese è di fede islamica (Usan 2023).
belgio
In Belgio, la libertà individuale è fondamentale sia nello spazio privato che in quello pubblico, a meno che non si commettano reati o si inciti all’odio, alla discriminazione o alla violenza. Tuttavia, in spazi pubblici come le strade, le piazze e le stazioni ferroviarie, è vietato indossare abbigliamento che copra completamente il viso. Questa legge è conosciuta come la “legge anti-burka” perché si applica alle donne che desiderano indossare il burqa o il niqāb, che coprono il viso. Le donne che violano questa legge sono passibili di multe e/o pena detentiva. La legge anti-burka è stata oggetto di controversie e di giudizi contrastanti da parte di organi giurisdizionali internazionali. La Corte costituzionale e la Corte europea dei diritti dell’uomo hanno stabilito che la legge belga non viola i diritti umani, poiché è giustificata dalla necessità di facilitare la convivenza sociale e la comunicazione tra le persone. Tuttavia, il Comitato dei diritti umani delle Nazioni Unite ha ritenuto che tale regolamentazione fosse eccessivamente severa, soprattutto per le donne che indossano tali abiti per motivi religiosi.
La questione del velo religioso è stata affrontata anche nelle scuole pubbliche belghe. La Corte costituzionale (Cour const., 4 juin 2020, no 81/2020) ha leggittimato il divieto dei segni religiosi, come il velo islamico, nelle istituzioni scolastiche sulla base di una concezione “totale” di neutralità.
Inoltre, per quel che concerne le carte d’identità e i passaporti, è consentito indossare copricapi solo per motivi religiosi o medici e se il viso è completamente visibile. (Vanbellingen 2022)
Austria
In Austria “Bundesgesetz über das Verbot der Verhüllung des Gesichts in der Öffentlichkeit” [“Legge federale che proibisce la copertura del volto in luoghi pubblici.”] (abbreviato Anti-Gesichtsverhüllungsgesetz, AGesVG [Legge anti-copertura del volto]), entrato in vigore il 1° ottobre 2017, vieta la copertura del viso in luoghi pubblici. Questa legge fa parte di un “pacchetto di integrazione” finalizzato a promuovere la partecipazione alla società e la convivenza pacifica in Austria. Il dibattito sulla legge è iniziato con l’idea di vietare il burqa in Austria, ma in seguito il focus si è spostato sul divieto generale della copertura del viso. Questa evoluzione è stata influenzata dalle argomentazioni di politici conservatori e dei partiti di estrema destra, che hanno sostenuto il divieto come una misura contro una presunta minaccia alla sicurezza nazionale. Il divieto della copertura del viso si basa sull’argomento della necessità di una comunicazione faccia a faccia nelle interazioni sociali. Questo argomento è stato sostenuto anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso del divieto della copertura del viso in Francia. Tuttavia, questo argomento è stato criticato da alcuni osservatori femministi, che vedono questa prospettiva come una restrizione delle libertà individuali.
La legge è stata applicata in modo controverso, come la richiesta di rimuovere le maschere da clown o i casi di persone che indossano maschere protettive durante la pandemia. Questi esempi sollevano domande sulla interpretazione della legge e sulla sua applicazione coerente. La normativa non è stata esente da critiche da parte dell’opinione pubblica. Alcuni cittadini hanno reagito al divieto pagando le multe inflitte alle donne mussulmane, dichiarando di voler sostenere la libertà religiosa.(Holzleithner 2018).
 
danimarca
On 1 August 2018, a ban on wearing the niqāb or burka in public places came into force in Denmark. The law has been the subject of controversy and discussion regarding religious freedom.
The wording of this law provides for a general ban on covering one's face in order to ensure the protection of public order. However, this ban was understood to be specifically aimed at Muslim women. Indeed, in the parliamentary debate, the discussion was mainly about the position of Muslim women and their oppressed status. According to some members of the Danish Islamic community, this debate was based on a stereotypical representation of Islam. Among the reactions to this measure, an interesting one seems to be the one made by a group of women who founded the organisation 'Kvinder i Dialog' (Women in Dialogue) to defend their right to religious freedom and, specifically, their right to practise their religion by wearing the niqāb and covering their faces in public places (See Daverkosen 2019).
Svizzera
In Svizzera, un divieto parziale del velo integrale è stato approvato in un referendum nel 2021. La legge vieta l’uso del burqa e del niqāb in luoghi pubblici. Questa iniziativa ha introdotto una nuova disposizione nell’articolo 10 della Costituzione svizzera. Tale disposizione stabilisce che nessuno può nascondere il proprio viso negli spazi pubblici né nei luoghi accessibili al pubblico o nei quali sono fornite prestazioni in linea di massima accessibili al pubblico. Inoltre, nessuno può obbligare una persona a dissimulare il viso a causa del suo sesso. Il divieto non si applica ai luoghi di culto. Comportamenti difformi possono essere giustificati esclusivamente da motivi inerenti alla salute, alla sicurezza, alle condizioni climatiche e alle usanze locali.
Nonostante il Consiglio federale e il Parlamento avessero raccomandato il respingimento dell’iniziativa, questa è stata approvata. La nuova normativa non è immediatamente applicabile. Sarà principalmente responsabilità dei Cantoni, competenti in materia di fruizione dello spazio pubblico, stabilire come applicare questa disposizione.(Sul tema si vedano Ceffa e Grasso 2021)
 

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germania
Germania
 In Germania, L’uso del velo è considerato un’espressione della libertà di fede. In questo senso, non vige un divieto generale relativo all’uso del velo integrale, poiché sarebbe in contrasto con la libertà di religione garantita dalla Legge fondamentale [Grundgesetz] tedesca. Più precisamente, rientra nella protezione garantita dalla libertà di religione sancita dall’articolo 4, paragrafo 1 e 2, della Legge Fondamentale tedesca (GG) (Si veda in tal senso Urteil vom 24. September 2003 - 2 BvR 1436/02).
Tuttavia, i dipendenti pubblici non possono coprirsi il volto e alcuni Bundesländer (come, ad esempio, Baviera e Bassa Sassonia)[3] hanno vietato il velo integrale nelle scuole pubbliche.
Il Bundesregierung (governo federale) ha vietato il viso coperto in determinati contesti pubblici nel 2017. Ad esempio, è vietato coprire il viso quando si è alla guida di un veicolo o per le dipendenti pubbliche come le insegnanti, le soldatesse e le giudici durante l’esercizio delle loro funzioni. Inoltre, alle donne che portano il velo integrale è richiesto di mostrare il volto in situazioni specifiche.

​Corte di Giustizia

 
Nel panorama giuridico europeo, alcune sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CJEU) relative al velo islamico sono state oggetto di dibattito nelle questioni legate alla libertà religiosa e ai diritti dei lavoratori sul luogo di lavoro. La Corte di giustizia, in una sentenza del 14 marzo 2017 (causa C-157/15, Achbita contro G4S Secure Solutions NV), ha stabilito che un datore di lavoro, in una azienda privata, non compie necessariamente una discriminazione diretta basata sulla religione o sulle convinzioni personali se proibisce ai dipendenti di indossare in modo visibile segni politici, filosofici o religiosi sul luogo di lavoro. Al limite, la sua condotta può rappresentare una discriminazione indiretta, se si dimostra che questo divieto, apparentemente neutro, crea un particolare svantaggio per le persone con una specifica religione o ideologia.
Più precisamente, tale atteggiamento può essere giustificato solo se il datore di lavoro ha una legittima ragione, come la promozione di un atteggiamento di neutralità politica, filosofica o religiosa nei confronti della clientela, e se utilizza mezzi appropriati e necessari per raggiungere tale obiettivo. La stessa corte (causa C188/15, Bougnaoui contro Micropole SA) aveva precisato che il desiderio di un cliente di non essere servito da una dipendente che indossa un velo islamico non può essere considerato come un requisito essenziale e determinante per l’attività lavorativa del datore di lavoro[2], poiché tale requisito doveva essere oggettivamente dettato dalla natura delle attività professionali in questione o dal contesto in cui sono svolte, non da considerazioni soggettive.
In una sentenza del 15 luglio 2021 (cause riunite C804/18 Wabe e C-341/19 Müller Handels), la Corte di Giustizia ha inoltre stabilito che la nozione di “religione” secondo l’art. 1 della direttiva 2000/78 comprende sia le convinzioni religiose interne sia la manifestazione pubblica della fede religiosa. Indossare simboli o abiti per esprimere la propria religione o le proprie convinzioni personali rientra nella libertà di pensiero, coscienza e religione garantita dall’art. 10 della Carta dei diritti fondamentali.
Inoltre, il diritto alla libertà di coscienza e religione secondo l’art. 10 della Carta è equivalente al diritto garantito dall’art. 9 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU).
Tuttavia, la sentenza del luglio 2021 consente ai datori di lavoro di vietare ai dipendenti di indossare simboli religiosi e altri simboli, anche se specifica in quali condizioni il datore di lavoro può esercitare tale potere. In breve, un datore di lavoro può proibire ai lavoratori di indossare il velo religioso solo se può dimostrare che tale divieto è strettamente necessario per ragioni di neutralità e che è applicato in modo coerente e non discriminatorio. (Si veda Howard 2022, 2023).
Geographic Map

​Il velo islamico e la libertà religiosa nella Corte europea dei diritti dell’uomo
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La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ha collegato l’uso del velo islamico all’esercizio del diritto alla libertà religiosa sancito dall’articolo 9 della Convenzione europea dei diritti umani. Numerosi casi connessi al tema della libertà religiosa affrontati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) riguardano l’utilizzo di abbigliamento o simboli religiosi, con una particolare enfasi sull’hijab islamico. La maggior parte di questi casi si sono verificati in Francia, Turchia e, in misura minore, in Svizzera, paesi con tradizioni costituzionali di laicità statale e norme restrittive in materia di simboli religiosi e abbigliamento. Le decisioni dei ricorrenti in questi casi dipendono principalmente dal contesto in cui sono stati indossati tali simboli o abbigliamento.
  • Per quanto riguarda i dipendenti pubblici, la CEDU ha generalmente sostenuto il diritto degli Stati a vietare l’abbigliamento religioso in nome della laicità.
  • In riferimento agli studenti, la CEDU ha confermato il diritto dei sistemi scolastici statali di proibire l’abbigliamento religioso per preservare la laicità.
  • In generale, la CEDU ha sostenuto il diritto degli Stati a vietare il niqāb in spazi pubblici in nome della convivenza e della protezione dei diritti altrui.
  • Tuttavia, in alcune situazioni, la CEDU ha ravvisato una violazione della Convenzione quando sono state imposte sanzioni a gruppi di manifestanti che indossavano abbigliamento religioso in luoghi pubblici.
  • Per quanto concerne l’abbigliamento religioso nei tribunali, la CEDU ha riconosciuto in alcuni casi violazioni dell’articolo 9 della Convenzione quando le restrizioni all’abbigliamento religioso sembravano ingiustificate.
Complessivamente, la CEDU ha dimostrato flessibilità nell’applicazione dei principi di libertà religiosa e laicità, cercando di bilanciare tali diritti in base alle circostanze specifiche di ogni caso.(Si veda su questo tema Mose 2023:59–60)
 Sei distinte posizioni sull’uso del velo in contesti occidentali
 
Il tema dell’uso del velo islamico è oggetto di un annoso dibattito. Possiamo schematizzare a questo riguardo sei distinte posizioni sull’uso del velo (islamico) in contesti occidentali.

Sostenitori della libertà religiosa. Questa posizione difende il diritto fondamentale alla libertà di religione, che include il diritto di indossare il velo come espressione della propria fede. I sostenitori di questa prospettiva ritengono che le norme che limitano o vietano l’uso del velo rappresentino una violazione di questo diritto costituzionale.
Sostenitori della sicurezza pubblica. Alcune norme che limitano l’uso del velo sono state promulgate con l’obiettivo di preservare la sicurezza pubblica. Coloro che sostengono questa posizione ritengono che il velo possa ostacolare il riconoscimento delle persone e creare problemi di identificazione, specialmente in contesti sensibili come aeroporti o strutture governative.
Sostenitori dell’uguaglianza di genere. Questa prospettiva si concentra sulla questione dell’uguaglianza di genere, sostenendo che il velo, in particolare il niqab o il burqa, rappresenti un simbolo di oppressione delle donne e possa limitare la loro partecipazione nella società. Le leggi anti-velo sono considerate da questa prospettiva come un mezzo per combattere la discriminazione di genere.
Sostenitori della laicità. In alcune nazioni, come la Francia, la laicità è un principio fondamentale e le leggi che proibiscono il velo in alcune istituzioni pubbliche sono giustificate dalla necessità di mantenere la separazione tra religione e stato. I sostenitori di questa prospettiva ritengono che il velo possa minare la neutralità religiosa dello stato.
Sostenitori della regolamentazione moderata. Alcune giurisdizioni cercano di trovare un compromesso tra la libertà religiosa e altri diritti fondamentali, adottando leggi che regolamentano l’uso del velo in determinati contesti, come le scuole o i tribunali, ma consentono la sua libertà in altri luoghi. Questa posizione cerca un equilibrio tra diversi diritti e interessi in gioco. ​
Sostenitori della tolleranza culturale. Questa prospettiva promuove la tolleranza culturale e riconosce che le persone dovrebbero essere libere di esprimere la propria identità culturale e religiosa attraverso l’abbigliamento, purché ciò non costituisca un pericolo per la sicurezza o la salute pubblica.
La critica all’uso del velo o di altri indumenti religiosi femminili spesso si basa sull’idea che rappresenti un simbolo di oppressione e discriminazione delle donne musulmane. Tuttavia, è importante riconoscere che la situazione varia notevolmente tra paesi musulmani e paesi europei. Mentre in alcuni paesi musulmani un determinato tipo di abbigliamento è imposto alle donne per legge, in Europa le donne possono indossarlo per scelta personale o essere spinte a farlo per motivi familiari, religiosi o culturali. Divieti assoluti sull’uso di alcuni tipi di indumenti religiosi possono portare all’isolamento delle donne che lo indossano, anziché alla loro liberazione. È essenziale affrontare la questione dell’uso del velo assumendo un atteggiamento aperto, valutando le diverse situazioni caso per caso, e fornendo sostegno alle donne che denunciano una situazione di oppressione, di sofferenza e prevaricazione (indipendentemente dalla loro appartenenza ad un determinato contesto culturale)(Mancini 2015).
NOTE

[1] Nel 2010 fu proposta una modifica all'articolo 5 della legge del 22 maggio 1975 (Proposta di legge n. 3205 presentata l’11 febbraio 2010) aveva lo scopo di includere specificamente “i vestiti femminili associati alle donne di fede islamica noti come burqa e niqab”. (Si veda Mancini 2015)

[2] Cfr. Sent. Cassazione civile sez. un., 09/09/2021, (ud. 06/07/2021, dep. 09/09/2021), n.24414. Sul tema si veda anche (Ruggiu 2018)

[3] Anon. 2020. «Drei Bundesländer wollen Vollverschleierung an Schulen verbieten». domradio.de. Recuperato 25 settembre 2023 (https://www.domradio.de/artikel/debatte-um-burka-und-nikab-drei-bundeslaender-wollen-vollverschleierung-schulen-verbieten).​

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