ANTHROJUSTICE
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​Illustrazione di un “test culturale
​

orientativo” e delle sue funzioni

Di seguito si illustra nel dettaglio il “test culturale orientativo” proposto in questo vademecum come strumento per analizzare alcuni casi culturali che si pongono con frequenza all’attenzione del giudice. Il test potrebbe essere usato dai giudici come schema motivazionale per analizzare anche altri casi culturali non selezionati in questo vademecum. 
Il test si compone di dodici domande, nasce dalla sintesi di test culturali e religiosi attualmente usati in Nord-America nonché dalla ricognizione dei principali argomenti elaborati dai giudici italiani ed europei quando risolvono conflitti multiculturali. Il test potrebbe essere utilizzato sia per le pratiche culturali che per quelle religiose. 

Il “test culturale orientativo” proposto è concepito con una struttura triadica. 
Le domande di cui si compone il test vengono di seguito
singolarmente spiegate nelle funzioni che intendono assolvere come ausilio allo ius dicere:
1. La categoria “cultura” (o religione) è utilizzabile?
Questa domanda è preliminare allo svolgimento del test e ha lo scopo di espungere l’uso errato o opportunistico dell’argomento culturale, che viene talvolta effettuato dalle parti nel processo o nelle richieste di asilo adducendo pratiche false o non riconosciute come tali dal gruppo.​
2. Descrizione della pratica culturale (o religiosa) e del gruppo.
Una volta accertato che ci troviamo di fronte ad un comportamento motivato dalla cultura, tale secondo passaggio del test ha lo scopo di fornire maggiori informazioni dettagliando i contenuti della pratica culturale, la sua origine storica, le modalità di manifestazione, il significato. La descrizione della pratica culturale immette la conoscenza antropologica nel processo; essa soddisfa l’obbligo di motivazione illustrando esattamente su che cosa si controverte e consentendo alla comunità degli interpreti che leggerà la sentenza di capire esattamente i contenuti del comportamento che si va a giustificare e/o condannare.​
3. Inserire la singola pratica nel più ampio sistema culturale.
Partendo dall’idea che la cultura è un “sistema interconnesso” (a complex whole ), è importante percepire le singole pratiche non come isolate, ma in interazione con l’intera “rete di significati” (web of significances ) per apprezzarne pienamente le caratteristiche e la portata. Una volta individuata la singola pratica culturale o religiosa, il giudice è, dunque, invitato ad interpretarla sistematicamente all’interno dell’“ordinamento culturale” per verificarne le connessioni e illuminarne ulteriormente il significato, nonché fornire all’uditorio una sua maggiore comprensione alla luce dell’intero orizzonte culturale della minoranza (es. il velo islamico non va trattato come una cosa isolata dal ruolo della donna araba, dal significato della modestia, dalla visione del corpo e senso del pudore in quel gruppo). Tale accertamento serve anche ad evitare che la maggioranza legga in modo distorto la pratica in quanto la contestualizza nel proprio sistema semiotico dove potrebbe avere tutt’altro significato (es. il velo islamico è letto nella “rete di significati” occidentale come oppressione femminile mentre nel mondo islamico ha funzioni estetiche, di un capo di moda, o pratiche, di protezione da vento e sabbia; il prezzo della sposa è visto in Italia come riduzione in schiavitù e compravendita di persona, mentre se inserito nel più ampio contesto del matrimonio rom mostra che è un dono fatto al padre della sposa che esprime il riconoscimento del valore della donna).
4. La pratica è essenziale (alla sopravvivenza del gruppo), obbligatoria o facoltativa?
La domanda serve ad indagare il livello d’importanza della pratica culturale per il soggetto che la rivendica anche al fine di valutare, nel bilanciamento successivo, che tipo di sacrificio si sta chiedendo alla minoranza. Si passa da pratiche culturali senza le quali il gruppo non esisterebbe come tale (es. la circoncisione ebraica è ritenuta essenziale alla sopravvivenza del gruppo); a pratiche che sono obbligatorie (es. portare il kirpan/coltello rituale per i Sikh; indossare il velo per le donne mussulmane); a pratiche culturali che sono meramente facoltative (es. baciare il proprio figlio sui genitali) e che sono più abitudini che pratiche strutturate. Più una pratica è cogente per l’individuo maggiore dovrebbe essere lo sforzo verso il suo riconoscimento da parte dell’ordinamento, ovviamente se ricorrono altre condizioni del test.
 
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5. La pratica è condivisa dal gruppo o è contestata?
Le culture sono sistemi dinamici e in costante cambiamento, se la trasmissione intergenerazionale di una pratica si sta interrompendo in quanto alcuni membri del gruppo le assegnano meno valore questo elemento potrebbe avere un peso nella valutazione del caso (es. scarificazioni del volto sono state abbandonate in certi gruppi; le stesse mutilazioni genitali femminili sono contestate in molti gruppi africani e asiatici), oppure no, in quanto per un determinato gruppo minoritario, interno alla minoranza, la pratica potrebbe continuare ad essere condivisa. Attraverso questa parte del test è possibile addentrarsi nelle dinamicità dei gruppi culturali e nelle differenziazioni che spesso li caratterizzano. Da un alto questa domanda evita il riconoscimento di pratiche controverse, assicurando una voce a quei sottogruppi che contestano la pratica culturale, dall’altro evidenzia i motivi che possono portare al permanere della stessa in altri gruppi interni: in entrambi i casi è sollecitata un’attenzione alle “minoranze dentro le minoranze”.

1. Parte oggettiva 
(domande di natura antropologica)

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1. Le prime cinque domande costituiscono la parte oggettiva del test, in cui si accerta se il comportamento oggetto del giudizio è effettivamente una pratica culturale, la si descrive nei dettagli e si espletano tutte le descrizioni antropologiche del comportamento volte ad assicurarne una piena comprensione.
2. Le domande sei e sette rappresentano la parte soggettiva del test in cui si accerta il concreto incarnarsi della cultura nel soggetto agente e il livello di adesione dello stesso alla sua cultura.
3. Dalla domanda otto alla dodici si tratta della parte relazionale del test, definibile anche come la parte interculturale, volta a mettere in dialogo la cultura minoritaria con quella della maggioranza italiana. ​
La risposta alla parte oggettiva del test (le prime cinque domande di natura antropologica) è stata fornita par alcuni casi in questo vademecum: nella parte speciale sono presi in esame degli esempi di test già compilato.
Quando questo vademecum non descrive la pratica culturale, la risposta alle domande può avvenire tramite l’esperto culturale (es. antropologo o altro studioso che ha studiato il gruppo e il comportamento in esame) o, se non lo si trova, tramite l’audizione di esperti “laici” qualificati (es. ambasciate, consolati, sindaci, altre autorità ufficiali che rappresentano la minoranza) o quisque de populo appartenenti al gruppo culturale che possono pronunciarsi sulla pratica culturale in esame.
Per le pratiche culturali più note e conosciute (es. circoncisione maschile) sono ipotizzabili anche autonome ricerche a cura del giudice. La risposta alla parte soggettiva e relazionale del test rientra nell’attività di accertamento dei fatti e di bilanciamento del giudice e aiuta a tenere in considerazione tutti gli interessi in gioco.
6. Come si comporterebbe la persona media appartenente a quella cultura (o religione)?
La domanda serve a parametrare il comportamento della parte a quello dell’agente modello (reasonable person nella giurisprudenza Nord-americana) e ad escludere comportamenti che non trovano il supporto del gruppo in quanto sproporzionati (es. il messicano che uccide all’insulto “chinga tu madre” non può invocare l’attenuante della provocazione in quanto nessun messicano medio reagirebbe a tale insulto con un omicidio, ma al massimo picchierebbe l’antagonista ). Questa domanda non è un calcolo statistico sull’intero gruppo, si deve, infatti, tenere in conto della presenza di sottogruppi dove la pratica potrebbe persistere mentre si va estinguendo nel gruppo più ampio.
7. Il soggetto è sincero?
La domanda serve a rapportare i dati oggettivi raccolti dalle precedenti domande al soggetto concreto che controverte, per valutare la legittimità delle sue rivendicazioni. Si tratta di un accertamento di fatto che può svolgersi verificando se nella vita del soggetto vi è coerenza tra pratica rivendicata e comportamenti complessivi (es. un soggetto chiede giorno libero il venerdì per andare in moschea, ma non va mai a pregare; una donna chiede di poter indossare il velo nella divisa di lavoro, ma non lo indossa mai nel resto della sua giornata). Se il soggetto non è sincero nella sua rivendicazione, anche se la pratica culturale è esistente, non potrà essere riconosciuta in quel caso concreto in quanto la richiesta è pretestuosa.​

2. Parte soggettiva

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Le domande sei e sette rappresentano la parte soggettiva del test in cui si accerta il concreto incarnarsi della cultura nel soggetto agente e il livello di adesione dello stesso alla sua cultura.​

8. La ricerca dell’equivalente culturale. La traduzione della pratica della minoranza in una corrispondente pratica della maggioranza (italiana).
È fondamentale, in ogni disputa multiculturale, “tradurre” la pratica in una equivalente della cultura maggioritaria indicando a che cosa corrisponderebbe quel comportamento/simbolo/rito/abitudine nel paese ospite. Lo scopo di tale accertamento è di rendere il comportamento della minoranza più intellegibile, evitando di attribuirgli significati distorti dalle lenti culturali che la maggioranza indossa. In tal modo, si fissano con esattezza i termini del bilanciamento. Si tratta di un accertamento relazionale, volto a mettere i gruppi in dialogo inter-culturale, che spesso i giudici già effettuano autonomamente, senza ausilio dell’antropologo, inserendo nella motivazione delle comparazioni tra la pratica dell’immigrato e quella a loro conoscenza nel proprio universo culturale (es. imporre ad una donna islamica di andare a lavoro senza il velo islamico sarebbe come chiedere a una donna italiana di andare a lavoro in bikini; baciare un bambino sui genitali in Albania corrisponde ad accarezzare il bambino nudo dopo il bagnetto in Italia).​
9. La pratica arreca un danno?
In questa parte del test si valuta se la pratica ha causato un danno e a quale bene giuridico. Il concetto di danno va considerato da una prospettiva antropologica e non esclusivamente con le lenti culturali della maggioranza. Questa domanda fa parte del test di bilanciamento. Rispetto alla scala assiologica dei valori, va rilevato che il danno al bene vita e il danno permanente all’integrità fisica di un soggetto sono, ad oggi, considerati, dal diritto vivente comparato, un limite invalicabile al riconoscimento culturale (tranne nel caso della circoncisione maschile che pur implicando una alterazione permanente e irreversibile è riconosciuta in tutti gli stati europei).
10. Che impatto ha la pratica della minoranza sulla cultura, valori costituzionali, diritti della maggioranza (italiana)?
La domanda è volta ad illustrare che tipo di reazioni suscita la pratica culturale sulla maggioranza al fine di mostrare alla minoranza come la sua pratica è letta e percepita dagli italiani. Il giudice è chiamato ad indicare precisamente i valori, i diritti e gli elementi culturali della maggioranza che risultano compromessi dal comportamento altrui. Questa indicazione serve ad evitare il generico argomento “la cultura altrui viola i valori occidentali” in quanto invita i giudici ad individuare più esattamente i valori effettivamente in gioco (es. il burqa in Francia impatta sul valore della fraternitè e del vivere insieme che è sentito in modo particolarmente forte in quel paese). La domanda ha un valore interculturale: se la pratica della minoranza viene proibita, per lo meno questa conoscerà le ragioni precise per cui ciò avviene e potrà riflettere sulla necessità di un mutamento interno alla propria cultura. E’ però importante che la maggioranza non usi questa domanda per imporre una etnocrazia, improntata ai soli valori della maggioranza, per questo deve trattarsi di valori e diritti davvero essenziali. Per esempio valori come la sicurezza, l’ordine pubblico, il decoro urbano non possono essere considerati superiori nella scala assiologica dei diritti e dei valori alla protezione della cultura. Diversamente si rischia di sostituire al modello di democrazia pluralista quello di una etnocrazia della maggioranza.
11. La pratica perpetua il patriarcato?
Il patriarcato è un “sistema di oppressione” che si interseca con la cultura, ma costituisce anche una realtà a sé stante. Considerato che l’uguaglianza di genere è uno dei temi particolarmente sentiti e che molte Costituzioni, documenti internazionali e giudici vi ricorrono come contro-limite al multiculturalismo, pare opportuno consolidare questo topos nel test. A livello comparato stanno aumentando le argomentazioni giudiziali che riconfigurano molti reati culturali come reati di genere (es. mutilazioni genitali femminili, omicidi d’onore). Il riferimento al patriarcato può farsi nel test con questi caveat: la nozione di patriarcato può essere un costrutto occidentale da correggere quindi con lo sguardo antropologico; esistono forme di patriarcato benevolo con cui la stessa donna negozia e da cui derivano vantaggi per cui la decisione dovrebbe tener conto di questi profili.
12. Che buone ragioni presenta la minoranza per continuare la pratica? Il criterio della scelta di vita ugualmente valida.
Il giudice è chiamato ad accertare e quindi illustrare in motivazione le ragioni per cui la minoranza vuole proseguire una pratica culturale. Tale domanda, quando compiuta dai giudici produce risultati utili da una prospettiva interculturale: da un lato, può portare a scoprire che i valori seguiti dalla minoranza non si discostano poi tanto da quelli della maggioranza; dall’altro, quando le logiche sono opposte, la comprensione di quelle altrui può aprire inaspettati spazi al riconoscimento. Dimostrando che, anche se opposta rispetto ad una pratica della maggioranza, la stessa contiene un modello di vita ugualmente portatore di senso (meaningful life), il bilanciamento potrebbe risolversi nel senso di riconoscere l’eguale validità del comportamento della minoranza (es. gli Amish in USA hanno ottenuto due anni di esenzione da frequenza scolastica in quanto praticano forme di insegnamento pratico-learning by doing in un contesto non competitivo e ugualmente formativo per i bambini[1]). Questo accertamento è utile per descrivere l’assetto di valori sotteso ad un comportamento illuminandone quindi la comprensione e per favorire un dialogo interculturale dal quale la stessa maggioranza potrebbe imparare. In prospettiva, infatti, la maggioranza potrebbe anche decidere di abbandonare proprie pratiche culturali per adottare quelle della minoranza. Che la sentenza spieghi all’uditorio la vita degna di senso della minoranza potrebbe essere l’avvio di una trasformazione interculturale feconda.


[1] Wisconsin v. Yoder et al., 406 U.S. 205, (1972).

3. Parte relazionale

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Dalla domanda otto alla dodici si tratta della parte relazionale del test, definibile anche come la parte interculturale, volta a mettere in dialogo la cultura minoritaria con quella della maggioranza italiana. 

Dopo aver risposto a queste dodici domande il giudice avrà una visione antropologica più accurata del caso e delle questioni che entrano nel bilanciamento. Non si tratta, tuttavia, di uno strumento unilaterale e definitivo. Gli stessi giudici che hanno già sperimentato questo test lo hanno, talvolta, integrato con domande che ritenevano necessarie per meglio comprendere il caso sotto esame.

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