ANTHROJUSTICE
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Vudù (riti)  

Approfondimenti giuridici  

​Vudù e tratta

La pratica del rituale vudù, oggetto di analisi in questa sezione, ha assunto rilevanza nell’ordinamento italiano innanzitutto in ambito penale, dove ha spesso ricoperto un ruolo nella configurazione di alcuni reati quali quello di riduzione in schiavitù (art. 600 c.p.) e tratta di esseri umani (art. 601 c.p.). In questi contesti, infatti, i rituali vudù sono utilizzati per sugellare un vero e proprio accordo di fedeltà tra giovani donne (di solito nigeriane) e taluni individui che, con la falsa promessa di procurare un lavoro onesto e ben retribuito in Europa, attraggono le giovani nella loro sfera di soggezione avviandole poi una volta giunte in Italia alla prostituzione. I riti in questione sono celebrati nella terra di origine, prima della partenza, e prevedono di solito il prelievo di materiale biologico (peli, capelli, piccoli parti di pelle), l’ingerimento di intrugli o di carne cruda, o ancora l’esecuzione di alcuni tagli sul corpo con conseguente prelievo di gocce di sangue[1]. Spesso in questi casi i giudici hanno ritenuto tali rituali quali elementi in grado di accentuare la situazione di vulnerabilità delle vittime (indicata nella decisione quadro dell'Unione Europea del 19 luglio 2002 sulla lotta alla tratta degli esseri umani, attuata dalla L. 11 agosto 2003, n. 228.), ma anche idonei ad attuare una vera e propria forma di “schiavitù mentale”, una “condizione ineludibile e stringente di soggezione” rispetto agli sfruttatori, perfettamente corrispondente agli elementi delle fattispecie richiamate di riduzione in schiavitù e tratta, perché determinanti una significativa compromissione dell’autodeterminazione della persona offesa. Sulla base delle risultanze delle indagini psicologiche e antropologiche di cui ci si è talvolta serviti nei procedimenti, i rituali, inseriti nel contesto religioso – spirituale di provenienza delle vittime, hanno la capacità di rafforzare la posizione di dominio su di esse, sia da un punto di vista fisico che psichico, facilitandone la coartazione alla prostituzione: il rito, per le modalità in cui si svolge richiama la sensazione di dolore fisico e in qualche modo la sua minaccia; dal punto di vista psicologico il possedere parti del proprio corpo induce invece le vittime a temere un forma di controllo su tutta la propria persona. Per i giudici, il vincolo di soggezione, unito alle altre condizioni di indigenza e alla mancanza di risorse, continua a determinare un vero e proprio condizionamento della volontà che resiste anche in presenza di una distanza spaziale effettivamente esistente tra la vittima e lo sfruttatore, la quale non intacca il rapporto di dominio[2].
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 Vudù e protezione internazionale

In tema di protezione internazionale indirettamente il rito vudù inteso come strumento di soggezione e coartazione ha assunto un ruolo nel riconoscimento dello status di rifugiato alle vittime di tratta[3]. Al di fuori di queste ipotesi, i casi che di solito si presentano alle corti riguardano soggetti che rifuggono dal ricoprire la carica di sacerdote vudù ereditata dal proprio padre, subendo intimidazioni o persecuzioni da parte di altri membri della comunità, individui che temono le ripercussioni fisiche o psichiche dei medesimi riti, effettuati da altri membri della famiglia spesso per dissidi e liti, o ancora, casi in cui si rifiuta l’iniziazione alla pratica perché appartenenti ad altre religioni. In queste ultime ipotesi, i richiedenti sono per lo più di sesso maschile.


 Apparentemente potrebbe riscontrarsi una maggiore potenzialità lesiva del rito nei confronti delle donne vittime di tratta rispetto che agli individui di sesso maschile. A questo proposito però è opportuno evidenziare che il potere di soggezione dei riti affonda le proprie radici nella struttura della società complessiva, in un substrato sociale e culturale che è lo stesso per donne e uomini e questa considerazione potrebbe essere utile ad evitare differenze, seppure non prescindendo dalla valutazione del caso concreto.
In entrambi i casi infatti, individui provenienti dai medesimi contesti culturali richiedono agli ordinamenti ospitanti di azionare forme di protezione “dalla cultura”.
Sebbene non si possa parlare di una posizione maggioritaria e netta in materia, è possibile riscontrare nella giurisprudenza una forma di riconoscimento di tali situazioni di “soggezione”, almeno come potenzialmente lesive della sfera dei diritti umani. Infatti, spesso la giurisprudenza di legittimità ha individuato la soggezione o il timore del rito come potenzialmente inquadrabile nella figura della protezione umanitaria, oggi abrogata e in parte sostituita dalla protezione speciale, invitando le corti di merito a operare gli opportuni approfondimenti[4]. Infatti, in alcune pronunce a tali elementi viene riconosciuta la capacità di aumentare la condizione di vulnerabilità dell’individuo, soprattutto in caso di rimpatrio. La Cassazione crea un filo sottile di connessione tra queste situazioni e i diritti inviolabili dell’individuo tutelati dal sistema di protezione internazionale (art. 2 e art. 3 Cost.), e conseguentemente anche, con la tutela della vita privata e familiare (art. 8 della Cedu).
Un tema particolarmente sentito nel settore della protezione internazionale è quello della credibilità. Nelle casistiche che riguardano i riti vudù spesso i richiedenti non vengono ritenuti credibili perché non riescono a riportare l’esatta configurazione del rito che temono, gli elementi tipici di quel sistema religioso né i poteri che la figura ad esempio del “sacerdote” detiene, non indicano dei veri e propri soggetti “persecutori”; si ritiene, inoltre, che non patiscano un reale pericolo concreto per il fatto che non hanno richiesto la protezione statale[5]. A tale proposito è utile richiamare una pronuncia della Cassazione riguardante il caso di un individuo che aveva richiesto protezione internazionale in Italia, perché vittima di numerosi atti intimidatori nel paese di origine, a causa del rifiuto a ricoprire la carica di sacerdote vudù, ereditata dal proprio padre. In questa pronuncia, il ricorso del richiedente viene accolto. La Cassazione riscontra infatti un vizio nel procedimento di valutazione della credibilità del richiedente, e nel caso di specie, evidenzia una violazione dei doveri di cooperazione istruttoria (D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3 e 5). Per la Cassazione i giudici del merito hanno esaminato la vicenda del ricorrente sulla base di una ricostruzione apodittica e basata sulla propria percezione soggettiva dei fatti. Nel caso in esame non si attua un diretto riconoscimento della situazione del ricorrente in una delle categorie definite dalla protezione internazionale, ma vi è comunque l’invito a riesaminare la questione, in sede di merito, secondo un punto di vista differente, più vicino al contesto culturale del richiedente. Per quanto tali vicende si possano mostrare come “lontane” dalle percezioni della cultura maggioritaria, di cui gli stessi operatori giudiziari fanno parte, sembra essere richiesto uno sforzo maggiore in merito alla valutazione delle stesse – non inferiore a quella che si attua in presenza di altri fatti che paiono più verosimili e vicini al contesto culturale del giudice - che va aldilà della mera mancanza di riscontri oggettivi, proprio per la particolarità del contesto, ma tiene conto altresì “della situazione individuale e delle circostanze personali del richiedente”[6].
Sovrapposizioni tra vudù e stregoneria 
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Dall’analisi della giurisprudenza che contiene riferimenti ai riti vudù, soprattutto nel settore della protezione internazionale, è inoltre emerso un altro dato: soprattutto nei casi in cui i soggetti riferiscono il timore delle conseguenze fisiche o psichiche del rituale o sostengano di averle già subite, si verifica a volte una sovrapposizione concettuale tra il vudù e il differente fenomeno culturale della stregoneria (vedi voce in questo Vademecum “Caccia alle streghe e stregoneria”). 
Pur trattandosi di due fenomeni differenti, dotati di caratteristiche proprie (ragion per cui ai due fenomeni sono dedicate singole schede di approfondimento in questo Vademecum), accade talvolta che nelle pronunce che riportano le istanze dei richiedenti asilo essi si sovrappongano o divengano interscambiabili[7], complice anche il fatto che spesso lo strumento comunicativo utilizzato è l’inglese, una lingua secondaria per chi espone i fatti e per chi li ascolta, e ciò aumenta l’instabilità del dato linguistico. Il fatto che il confine tra i due fenomeni spesso si assottigli però non deve essere interpretato solo come una mera problematica linguistica-lessicale, ma piuttosto come un sintomo che evidenzia come i due fenomeni, pur differenti, siano allo stesso tempo intimamente legati. Se è vero che il vudù ha una strutturazione religiosa a tutti gli effetti e su di essa forgia la sua capacità di soggezione rispetto all’esistenza degli individui, la stregoneria, intesa come forza spirituale che governa i fatti umani e della natura, si insinua nelle faglie che si sono comunque create in quello stesso substrato spirituale. Fenomeni diversi sì, ma complementari, frutto di una comune interpretazione dell’esistenza in cui la spiritualità fa da padrona e alcune categorizzazioni tipiche della cultura occidentale (vita- morte, uomo-natura, diritto-spiritualità) sono più sfumate.
La connessione con la stregoneria può essere rilevante per comprendere la reale portata di soggezione, a tratti persecutoria, che anche il rito vudù è in grado di avere, dando vita a potenziali e plurime degradazioni dei diritti umani, e in questo senso essere in grado di azionare un sistema di protezione.
note
[1] Pronunce in cui vengono descritti i rituali vudù di soggezione: Cass. Pen. sez. I., 3/02/2022, n. 3796 (utilizzo di perizia psicologica e antropologica); Tribunale sez. uff. indagini prel. - Torino, 12/08/2011, n. 1108.

[2] Cass. Pen. sez. I – 20/09/2021, n. 34858; Cass. Pen. sez. V, 12/01/2022, n. 690.

[3] Tratta e schiavitù e protezione internazionale: Tribunale Bologna, 17/07/2019; Tribunale Lecce, 06/04/2021.

[4] Cass. Civ. Sez. I - 27/05/21, n. 14849; Cass. Civ., Sez. III – 5/10/21, n. 26983 e n. 26984; Cass. Civ. Sez III – 14/12/21, n. 39906.

[5] In merito alla questione potrebbe essere utile prendere in considerazione quanto evidenziato nella sezione del Vademecum n.7, dedicata alla “sincerità del soggetto”. Per un approfondimento delle problematiche che spesso si riscontrano in tema di conoscibilità dei riti da parte degli stessi potenziali affiliati si veda Decarli (2020).

[6] Già cit. Cass. Civ. sez. I - 27/05/2021, n. 14849: “Per contro, la valutazione di credibilità delle dichiarazioni del richiedente non è affidata alla mera opinione del giudice ma è il risultato di una procedimentalizzazione legale della decisione, da compiersi non sulla base della mera mancanza di riscontri oggettivi ma alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 tenendo conto "della situazione individuale e delle circostanze personali del richiedente" di cui al comma 3 cit. articolo, senza dare rilievo esclusivo e determinante a mere discordanze o contraddizioni su aspetti secondari o isolati del racconto”. 

[7] Pronunce in cui i fenomeni vudù-juju/stregoneria si sovrappongono: Cass. Civ. sez. I - 23.11.2021, n. 36313; Cass. Civ., sez. III - 20.04.2022, n. 12644; Cass. Civ., sez. I - 03.08.2022, n. 24133; Cass. Civ. sez. I - 15.12.2022, n. 36753. ​

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