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Kafala

Approfondimenti giuridici

L’istituto della kafala è un esempio di pratica culturale che ha trovato nella giurisprudenza degli stati estranei al sistema di diritto islamico un grande accomodamento fino ad essere ormai pacifica la sua inclusione tra gli strumenti di protezione internazionale dei minori e il suo riconoscimento in gran parte degli ordinamenti giuridici.
La giurisprudenza italiana ha riconosciuto l’istituto gradualmente. Dapprima lo ha legittimato, nella sua forma “giudiziale”, essendo oggetto di un provvedimento giurisdizionale estero, quale presupposto per il ricongiungimento familiare tra il kafil e il minore ad esso affidato. In un primo momento questo riconoscimento ha riguardato soltanto soggetti che non avevano la cittadinanza italiana[1], ma dopo la pronuncia della Cassazione civ. SS.UU. n. 21108/2013[2] la possibilità di usufruire del ricongiungimento è stata estesa anche ai cittadini italiani, con la specificazione che non vi era lesione del principio dell’ordine pubblico internazionale o elusione delle norme sulle adozioni internazionali proprio perché la kafala non aveva gli stessi effetti di quest’ultima, non potendo determinare alcun rapporto di filiazione. Altre pronunce particolarmente significative riguardano l’equiparazione nel riconoscimento tra kafala “giudiziale” e kafala “negoziale”, in cui l’accordo di affido avviene tra i privati per poi essere omologato da un’autorità o giurisdizionale o notarile competente del luogo[3]. Infine, altre pronunce hanno poi riguardato in senso più ampio l’istituto, soffermandosi nell’individuazione dei suoi effetti nell’ordinamento giuridico. Ad oggi, anche nelle corti di merito, pur non prescindendo da una valutazione del caso concreto effettuata sempre in un'ottica di tutela dell’interesse del minore, si afferma l’efficacia nell’ordinamento italiano dell’istituto e del provvedimento che instaura la relazione di cura tra kafil e minore, mediante le norme inerenti all’esecuzione dei provvedimenti di autorità straniere nello Stato Italiano [4]; si esclude la necessità di aprire procedimenti di tutela nei confronti del minore affidato secondo questa modalità nonché la eventuale nomina di un tutore differente dalla persona individuata come kafil, avendo quest’ultimo già la tutela legale come affidatario nominato dal tribunale/autorità giudiziaria del luogo competente[5]; si riconosce il legame di kafala come presupposto del diritto alla fruizione del congedo parentale, ai sensi dell’art. 26, comma 6, del d. lgs. 151/2001 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità)[6]. L'importanza dell’istituto ha indotto la Cassazione a richiedere alle corti di merito di rivalutare la possibilità di configurazione del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per il soggetto che rechi con sé il minore ad esso affidato in kafala, introducendolo nello Stato[7].
Anche la Corte di Giustizia Europea ha contribuito a valorizzare l’istituto nella pronuncia del 26/03/2019, n. 129 (Grande Sezione), statuendo che il minore affidato in kafala seppure non possa individuarsi nella qualifica di “discendente diretto” degli affidatari, cittadini UE, sia da considerarsi quanto meno “altro familiare” degli stessi, ai sensi dell’art. 3, par. 2, comma 1, lett. d) della direttiva 2004/38 e pertanto abbia diritto al visto di ingresso in uno degli stati dell’Unione.
È vero che questo percorso di accomodamento della pratica negli ordinamenti giuridici diversi da quelli di provenienza è stato facilitato dalla presenza di alcune norme in importanti convenzioni internazionali che prevedevano tale istituto come uno strumento di protezione dell’infanzia. La kafala è infatti riconosciuta Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1989 (art. 20; ratificata dall’Italia con L. n. 176/1991), ma anche dalla Convenzione dell'Aja sulla competenza, la legge applicabile, il riconoscimento, l'esecuzione e la cooperazione in materia di responsabilità genitoriale e di misure di protezione dei minori del 1996 (artt. 3, lett. e) e art. 33; ratificata dall’Italia con L. n. 101/2015). In questo senso anche ha agito da elemento facilitatore al riconoscimento il suo carattere fortemente istituzionale, essendo in entrambe le sue forme, negoziale o giudiziale, oggetto di un provvedimento di un'autorità del luogo e dunque anche in frutto di un accertamento a monte rispetto all’idoneità dei soggetti coinvolti nell’affidamento e nella cura del minore.
Si è trattato comunque di un percorso non privo di difficoltà e che ancora oggi è in via di evoluzione, visto il presentarsi di numerosi interventi sul tema, proprio in sede giurisdizionale, sempre diretti a specificarne di volta in volta i contenuti (come le pronunce di merito riportate). L’istituto si confronta con istanze importanti dell’ordinamento giuridico interno come, ad esempio, la necessità di controllore l’ingresso degli stranieri in Italia e i flussi migratori, nel caso dei ricongiungimenti in particolare, ma anche con l’interesse dei minori all’unità familiare, andando comunque a costituire una forma di allontanamento anche se non irreversibile dalla famiglia di origine.


Un ruolo primario è stato assunto poi dall’utilizzo attento del parametro del “miglior interesse del minore”. Appare infatti evidente come questo concetto sia stato utilizzato in tema di kafala secondo uno schema ottimale, che potrebbe peraltro essere di esempio anche per altre pratiche culturali in cui sia necessario operare un bilanciamento tra differenti interessi del minore, compreso quello alla sua identità culturale.
Il migliore[10] interesse del minore è un concetto estremamente poliedrico ed esso stesso nel tempo ha subito e continua a subire mutazioni nel suo utilizzo. Alcuni studiosi evidenziano come lo stesso sia per natura un parametro dai contorni smussati, non possa essere impacchettato in una serie di disposizioni (Iovane, 2022) da adottare a tutela del minore per ogni evenienza, ma piuttosto in un insieme di più elementi, un parametro sfaccettato e orientato alla valutazione combinata tra interessi nell’immediatezza della vita del minore ma anche in una prospettiva futura, che non sancisca automatismi rispetto alla superiorità di questi interessi rispetto ad altri, così come non sia incanalato in elementi dispositivi inflessibili che non permettono agli organi giudicanti un'ampia valutazione del caso concreto (Lamarque, 2023). Dalle decisioni che si sono riportate in tema di kafala emerge come questo parametro sia stato utilizzato nella sua forma più ragionevole, con una valutazione che non prescinde dal fatto concreto e crea equilibrio tra l’identità culturale del minore e il suo benessere fisico e psichico.


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NOTE

[1] Cass. Civ. sez. I - 20/03/2008, n. 7472.

[2] Cass. Civ. Sez. Un. - 16/09/2013, n. 21108.

[3] Cass. Civ. sez. I – 2/02/2015, n. 1843..

[4] Artt. 65 e 66 della L. 218/1995, inerente al sistema italiano di diritto internazionale privato; in questo senso si veda Corte appello sez. II - Salerno, 26/07/2022, n. 23.

[5] Tribunale sez. I – Mantova del 10/05/2018.

[6] Tribunale sez. lav. - Venezia del 24/09/2021, n. 542.

[7] Cass. Pen. sez. I - 14/04/2021, n. 22734.

[8] Di tale evoluzione discute Iovane (2022), effettuando un’analisi di tale concetto proprio in riferimento al parametro del miglior interesse del minore.

[9] Garaci (2020) riporta alcuni esempi di questo tipo citando alcuni esempi, tra essi: la delega parentale prevista dal sistema francese, che prevede una forma di condivisione della responsabilità genitoriale attraverso la delega parentale; l’open adoption in uso negli USA, che permette al minore adottato di mantenere i legami con la famiglia di origine; in relazione all’ordinamento italiano il modello dell'adozione mite, derivata dall’interpretazione giurisprudenziale dell'art. 44, lett. d., della legge n. 184 del 1983 (c.d. adozione in casi particolari), che prevede anch’essa il mantenimento dei rapporti tra il minore e la famiglia di sangue. A questo proposito è opportuno, ad esempio, segnalare l’ordinanza di rimessione della Cassazione alla Corte Costituzionale, la n. 230 del 5.01.2023, nella quale si chiede di verificare la legittimità costituzionale della norma della legge sull’adozione che prevede come regola generale di recidere i rapporti tra adottato e famiglia di origine. Il dubbio della Cassazione riguarda, infatti, la corrispondenza dell’interruzione di questi legami al miglior interesse dei minori nel caso degli orfani da femminicidio, in relazione al loro rapporto con nonni e zii paterni. La Corte Costituzionale ha affrontato la questione nella sentenza n. 183 del 28/09/2023, evidenziando come un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma contestata (art. 27; L. n.184/1983) esclude l’assolutezza del divieto di mantenimento di particolari relazioni socio-affettive tra il minore e la propria famiglia di origine, tanto più se in questo mantenimento il giudice ravvisa la realizzazione dell’interesse del minore, un modo per tutelare la continuità dei suoi legami affettivi e la sua identità.

[10] Alcuni autori precisano come nella traduzione del concetto di Best interest of the child sia preferibile il termine “migliore” a quello “superiore”, in quanto il primo metterebbe maggiormente in evidenza la necessità di bilanciamento di tali interessi rispetto agli altri coinvolti, senza che possa essere data l’idea che questi siano sempre e comunque prevalenti. Si vedano Iovane (2022) e Lamarque (2023).

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